di Christopher Stroop*
Quando per la prima volta ho sentito mettere sullo stesso piano Islam e terrorismo, ero un giovane studente diciassettenne all’Heritage Christian School di Indianapolis, dove mia mamma era- e ancora è- una maestra elementare. Era il 1998 molto prima che l’islamofobia diventasse moneta corrente nel mondo occidentale. La mia famiglia frequentava una chiesa non-confessionale evangelica alla periferia di Carmel di cui mio padre era il direttore del coro.
“Un buon musulmano”, tuonava il nostro capo Pastore quella domenica mattina, “dovrebbe volere uccidere cristiani ed ebrei”. Sosteneva che quella fosse l’unica possibile conclusione di una seria lettura del Corano. Io ero un giovane evangelico con qualche dubbio, che sarebbe in seguito diventato agnostico, e quella dichiarazione così forte anche allora mi mise a disagio. Oggi, con il lutto per il massacro di Christchurch in Nuova Zelanda, tutto questo discorso dovrebbe essere considerato offensivo e pericoloso tanto quanto i peggiori cliché antisemiti.
Ma si applicano due pesi e due misure, come evidentemente dimostrato dal clamore suscitato dalle dichiarazioni di Ilhan Omar. Gli Stati Uniti riconoscono l’antisemitismo per il veleno che è, e vigilano – perlomeno a sinistra- sulle ricadute, anche semplicemente accidentali nei suoi stereotipi. Ma l’islamofobia di matrice religiosa, con la quale io sono cresciuto, continua ad ispirare la politica estera di Washington- e le dichiarazioni islamofobe troppo spesso non suscitano sdegno ne critiche.
Le dichiarazioni a proposito di Israele della Omar, una delle due donne musulmane elette al Congresso degli Stati Uniti hanno ricevuto pesanti critiche ed accuse di antisemitismo e in recente intervento sul Washington Post, la Omar ha scelto le sue parole con più attenzione, evitando la retorica della “subalternità” che ha indotto molti a criticare il suo linguaggio, ma alcune fra queste critiche, non erano solo frutto di malafede- erano espressione di quell’islamofobia che in modo sinistro fa il paio con l’antisemitismo.
La presidenza di Donald Trump si è nutrita del timore della perdita di potere e di influenza fra i conservatori bianchi e protestanti. Questa violenta reazione contro una crescente diversificazione e democratizzazione nella società è risaputa. Non molto tempo fa lo stereotipo della doppia-lealtà è stato utilizzato dai protestanti americani non solo per mettere in discussione il patriottismo degli ebrei, ma anche quello dei cattolici; si pensi in particolare alle elezioni del 1960, quando John F. Kennedy divenne il primo presidente cattolico degli Stati Uniti d’America. C’è qualcosa di analogo in gioco oggi quando i conservatori – spesso cristiani evangelici insieme a un numero limitato di ebrei americani- fanno ricorso a teorie cospirative circa una supposta infiltrazione nel governo statunitense della Fratellanza Musulmana e affermano che i musulmani cercano di imporre la Sharia negli Stati Uniti.
Ma l’impatto più devastante dell’islamofobia religiosa potrebbe farsi sentire in politica estera. Islamofobi come l’ex capo della CIA e attuale segretario di stato Mike Pompeo incombono pesantemente nell’amministrazione Trump.
Sotto Trump più che sotto i precedenti presidenti, la politica estera americana si è ispirata ad una forma di Cristianesimo fondamentalista i cui aderenti sfoggiano un’ostilità particolarmente violenta nei confronti dei musulmani. Gli evangelici bianchi costituiscono non solo la base di Trump ma attualmente sono anche i sostenitori della politica demografica più sciovinistica negli Stati Uniti.
Durante la guerra fredda, Protestanti evangelici, che in maggioranza aderivano (e tutt’ora aderiscono) ad un insieme di credenze escatologiche basate su un’interpretazione ottocentesca del libro dell’Apocalisse e di altri testi biblici considerati profetici, tendevano ad associare i principali nemici di Cristo con l’Unione Sovietica.
La fondazione storicamente inaspettata del moderno stato di Israele del 1948 fu utilizzata per sostenere la validità della loro interpretazione della profezia biblica, e il popolare libro di Hal Lindsey, I cieli e la terra finiranno (The Late Great Planet Earth), pubblicato nel 1970, diventò la classica narrativa evangelica della “fine dei tempi”, rendendo popolare un’interpretazione dello schema escatologico conosciuto come premillenarismo dispensazionale. Linsdey presentava la Russia come il regno di Magog, “profetizzato” come interprete di un ruolo guida fra le forze del male nella Battaglia di Armageddon.
Dalla fine della Guerra Fredda, ed in particolare in anni recenti, poiché diversi evangelici si sono schierati con il presidente russo Vladimir Putin per la sua difesa dei “valori tradizionali”, hanno poi faticato per trovare un accordo sul sostituto di Magog. Nel frattempo, mentre cresceva il sentimento anti-islamico fra di loro, potenze prevalentemente islamiche (come l’Iraq durante la guerra irachena) si sono in più occasioni presentate come possibili interpreti del ruolo, e l’autore evangelico Joel Richardson ha proposto un anti-Cristo che sorgerà dall’Islam.
L’influenza delle credenze evangeliche sulla fine dei tempi sulla politica statunitense nei confronti di Israele è cosa seria.
Entrambe queste componenti del pensiero evangelico popolare –il premillenarismo dispensazionale e l’islamofobia- sono riconoscibili in Pompeo, un evangelico presbiteriano che ha manifestato il suo appoggio alle posizioni cospiratorie di Frank Gaffney, un islamofobo un po’ picchiatello che ha giurato di lottare contro il male fino all’ “estasi”.
Vero è che Pompeo ha più recentemente detto, “Siamo tutti figli di Abramo,” ma poiché sappiamo che agli evangelici è insegnato che gli ebrei sono i discendenti di Isacco e gli arabi di Ismaele, e che mai ci sarà pace fra loro, questa affermazione assume esotericamente un diverso significato.
Le azioni degli evangelici americani sulla scena politica non sono dirette principalmente a provocare l’apocalisse- ma certo non cercano di evitarlo. Gli evangelici cercano di seguire la volontà di Dio come essi la interpretano, e la loro comune interpretazione della profezia biblica dice che Israele deve espandere i suoi confini fino ad allinearsi con quelli del regno biblico promesso da Dio ai discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe e che Israele deve ricostruire il Tempio- il cui sito è attualmente occupato dal complesso della moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo sacro dell’Islam- prima che i tempi della fine possano arrivare.
Ecco perché gli evangelici hanno da lungo tempo ampiamente appoggiato e fatto pressione per il riconoscimento di Gerusalemme quale indivisa capitale dello stato di Israele.
La volontà di Trump di perseguire la sua agenda radicale apocalitticamente ispirata dagli evangelici bianchi è stata evidente non solo nella decisione della sua amministrazione di spostare l’ambasciata U.S.A da Tel Aviv a Gerusalemme, ma anche nella scelta di pastori protestanti fatti arrivare per parlare all’apertura dell’ambasciata. John Hagee, che ha scritto diversi libri sulla fine dei tempi, ha presentato l’olocausto come parte del piano di Dio per riportare gli ebrei in Israele, e Robert Jeffress, un uomo che ha fatto eseguire nel 2017, al coro della sua chiesa una specie di inno intitolato “Make America great again”, non ha nascosto la sua convinzione secondo cui gli ebrei che non si convertono al Cristianesimo andranno all’inferno. Posizioni come quelle di Pompeo, Richardson, Hagee e Jeffress non sono innocenti. Anche se in generale pongono grande attenzione nell’evitare affermazioni esplicitamente razziste, come quelle correnti fra i nazionalisti bianchi contemporanei, il loro linguaggio religioso è una pura e superficiale verniciatura sulla loro bigotteria, e le loro parole aggiungono benzina a quel fuoco che sfocia nella violenza di massa, negli Stati Uniti come altrove.
Le conseguenze dell’odio suprematista-bianco si sono concretizzate in devastanti attacchi su ebrei e musulmani: nella sparatoria alla sinagoga l’Albero della vita (The Tree of Life) che è costata 11 vite il 27 ottobre del 2018 e nell’attacco a due moschee a Christchurch in Nuova Zelanda con un bilancio di 50 vittime, il 15 marzo di quest’anno.
Con un gesto di solidarietà, la congregazione della Sinagoga l’Albero della vita ha raccolto più di 58.000 dollari per le vittime delle sparatorie alla moschea in Nuova Zelanda. Questo gesto ricorda il modo in cui la comunità islamica del Minnesota – tra di loro molti ex rifugiati- alla quale appartiene Ilham Omar, ha lavorato in intesa con la comunità israelitica locale per promuovere i diritti civili.
Purtroppo le posizioni islamofobe sono diffuse tra i bianchi evangelici, i quali stanno esercitando un’influenza senza precedenti sull’amministrazione Trump, e il 72 per cento fra loro è favorevole a misure di messa al bando dei musulmani.
La presa di questo sciovinismo ai livelli più alti del potere americano è pericolosa ed inquietante. Essa produrrà più violenza di massa ed ulteriore destabilizzazione in medio oriente- una minaccia molto più grande di quella posta dalla critica all’AIPAC (American -Israel Public Affairs Committee).
*Christopher Stroop è uno scrittore freelance, conferenziere, e commentatore di politica e religione. Si occupa di destra cristiana statunitense, Russia e politica estera. Attualmente è Senior Researcher per il Postsecular Conflicts project dell’università di Innsbruck. Gestisce un blog, Not Your Mission Field.
Articolo pubblicato su foreignpolicy.com, titolo originale: America’s Islamophobia Is Forged at the Pulpit https://foreignpolicy.com/2019/03/26/americas-islamophobia-is-forged-in-the-pulpit/
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