In un editoriale del 29 luglio 2015, l’ex ambasciatore Sergio Romano sulle colonne del Corriere concludeva una sua riflessione sul conflitto nel nordest della Siria e il ruolo della Turchia con queste parole: “Per l’Europa l’obiettivo prioritario è la sconfitta dell’Isis e i curdi sono, in questa prospettiva, i suoi alleati. Se Ankara chiede alla Nato di essere autorizzata a combattere contemporaneamente l’Isis e i curdi, come sta accadendo in questi giorni, saremo costretti a rispondere che i nemici dei nostri nemici sono i nostri amici”.
In altre parole l’editoriale comprendeva che l’appoggio dei curdi e in particolare del PYD (il Partito dell’Unione Democratica) incrementava il problema di sicurezza della Turchia paese membro dell’Alleanza atlantica tuttavia la priorità dei paesi occidentali era l’Isis, i cui affiliati minacciavano le città europee, bisognava appoggiare il proxy degli eserciti occidentali in Siria, ovvero i curdi.
Questo nonostante il fatto che il terrorismo di matrice curda minacciava (e tuttora minaccia) le città turche e lede gli interessi vitali di Ankara. Dal quel momento fino a pochi giorni fa, gli Stati Uniti e molti paesi occidentali hanno finanziato ed armato il PYD che è riuscito a sottrarre all’Isis tutto il suo territorio. Questa politica ha reso difficile, inevitabilmente, le relazioni tra la Turchia e gli altri membri della Nato.
Eppure, Romano e molti governi occidentali erano coscienti che il PYD fosse un partito nazionalista curdo di ispirazione marxista, estensione siriana del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), dichiarato dai governi occidentali un’organizzazione terroristica. Per comprendere i legami organici tra il ramo siriano e il PKK si può dare uno sguardo ai caduti dello YPG, il braccio armato del PYD. Infatti, militanti dello YPG reclutati dal PKK in Turchia sono il 49,24% del totale delle perdite che lo YPG ha annunciato nei suoi bollettini, poco di più dei caduti di origine siriana.
Il PYD ha conquistato terreno lungo il confine con la Turchia a partire dalla metà del luglio 2012, quando le forze del governo centrale siriano furono costrette ad arretrare per poter concentrare i loro sforzi nelle regioni centrali del paese e per punire la Turchia del suo sostegno delle opposizioni al regime.
Il PYD prese presto controllo militare e amministrativo dei cosiddetti “cantoni” di Afrin, Kobani e al-Jazira appartenenti alla regione di Rojova. Il successo delle autonomie in Siria e il successivo sostegno occidentale, convinse i vertici del PKK ha rinunciare a metà luglio 2015 al processo di pace con il governo turco e a forzare la creazione di autonomie anche in territorio turco, cosa che aprì la strada a violenze anche in territorio turco. “L’autonomia democratica”, viene dipinta spesso sui media italiani come un nuovo paradiso sulla terra, ma testimonianze e rapporti ci fanno pensare a qualcosa di ben diverso.
Fino ad oggi il PYD è rimasto concentrato sulla lotta all’interno della Siria per mantenere il sostegno occidentale anche se, in questi ultimi anni, molti dei nazionalisti curdi che si sono macchiati di terrorismo in Turchia si erano rifugiati o erano stati addestrate nel loro territorio. Oggi, però, la guerra contro l’Isis è stata vinta dalla coalizione internazionale (che include anche la Turchia) e gli sforzi internazionali sono, adesso, rivolti a prevenirne la sua riformazione. Vale dunque ancora sostenere il principio “i nemici dei nostri nemici sono i nostri amici”?
Il Presidente americano Trump, evidentemente, pensa di no. Domenica sera ha ordinato ai soldati americani lungo il confine turco-siriano di allontanarsi e in un lungo tweet ha spiegato che l’obiettivo degli Stati Uniti era quello di sconfiggere l’Isis (cosa avvenuta con successo), adesso tocca agli altri membri della coalizione, soprattutto i paesi europei, prendersi le proprie responsabilità. In un altro tweet, però, ha ricordato alla Turchia che ha promesso di continuare a combattere l’Isis e di occuparsi dei militanti dell’Isis catturati insieme alle loro famiglie, ora detenuti nel territorio del PYD e che i loro paesi di origine non vogliono riprendersi. Insomma, anche se con istituzioni democratiche non sempre efficienti, Trump riconosce la Turchia come un alleato più affidabile nella regione e integrato nelle organizzazioni internazionali.
La Turchia, da parte sua che vuole ottenere? In sostanza Ankara ha tre priorità nel nord della Siria. La prima è quella di allontanare i militanti del PYD dai tunnel, bunker e postazioni lungo il confine comune per evitare che vengano utilizzate contro le forze armate turche o per infiltrare nel proprio territorio armi, esplosivi o terroristi. Questo include anche fermare gli aiuti di armi e mezzi dai paesi occidentali al PYD. Aiuti che sono finiti più volte nel mercato nero e sono state utilizzate contro Ankara.
La seconda priorità è di organizzare l’ospitalità di una parte dei rifugiati siriani in una fascia di sicurezza in territorio siriano. L’opinione pubblica turca è sempre più risentita della presenza di quasi quattro milioni di rifugiati siriani nel proprio territorio e preme per un loro ritorno nelle regioni sicure della Siria. La Turchia, è stata lasciata sola, nella gestione dei flussi di rifugiati. Si pensi che l’Unione europea, fino ad oggi, ha stanziato in totale di 1,12 miliardi di euro che serve a sostenere parte delle spese di 1,6 milioni di rifugiati. Ognuno di questi rifugiati riceve dall’Unione 20€ al mese, ma bisogna anche tenere presente che lo stipendio minimo in Turchia, che da una vita quasi dignitosa, è di circa 350€.
La terza priorità della Turchia è quella di costringere il PKK a rinunciare alla lotta armata. Nel 2013, il PKK aveva accettato di deporre le armi su appello del leader storico dell’organizzazione, Abdullah Öcalan. Come abbiamo già visto però i risultati promettenti in Siria lo convinse a ritornare alla violenza e a pretendere la creazione di cantoni autonomi anche in Turchia. Inoltre l’organizzazione, stretta in nord Iraq dalle operazioni militari turche coordinate con il governo locale curdo e il governo centrale iracheno, ha già creato nuove postazioni lungo il confine siro-iracheno e potrebbe essere tentato di spostare tutte le proprie operazioni in Siria, ancora una regione instabile.
La Turchia ha già compiuto azioni militari di successo in Siria, prima, contro l’Isis nella regione di Jarabulus e, successivamente, contro il PYD nella regione di Afrin. Sarà, quindi, in grado certamente di degradare il PYD. Controllare da sola tutta la fascia di sicurezza lungo il confine, profonda trenta chilometri, sarà un’operazione molto difficile da realizzare. Occuparsi anche delle migliaia di militanti Isis prigionieri sarà molto difficile da un punto di vista legale (non esistono gli estremi per un processo equo) e da un punto di vista umanitario (garantire il rispetto dei diritti umani minimi) senza uno sforzo internazionale di tutti i paesi che hanno loro cittadini e residenti catturati.
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