Non esiste una formula matematica per stabilire il rapporto numerico ideale tra rappresentanti e rappresentati. E quindi diminuire il numero dei parlamentari italiani poteva essere una scelta giusta: in materia esperti e opinionisti si dividono come ben rappresentato sui media in questi giorni.
Quello che è certo però è che la legge sul “taglio dei parlamentari” approvata la scorsa settimana a stragrande maggioranza è stata approvata per motivi sbagliati. E non mi riferisco alla tattica politica – il consolidamento di una nuova compagine governativa – ma bensì al discorso politico: la riduzione dei costi. Quelli che da tempo ormai vengono chiamati i costi della democrazia.
Certo si può fare una scelta giusta per motivi sbagliati. Ma la politica è attività eminentemente discorsiva e le parole contano eccome. L’espressione “taglio dei parlamentari” evoca tutto ciò che di questi tempi si taglia – la spesa pubblica, gli insegnanti, i dipendenti di un’azienda, le pensioni – in quanto cose superflue, inutili, illegittime, e soprattutto in quanto sprechi. Mettere tra questi ultimi la massima espressione della democrazia moderna, l’assemblea elettiva dei rappresentanti del popolo, non è un bel discorso.
Ma è un discorso che parte da lontano – tanto lontano che stupisce oggi non solo quel voto compatto con cui gli stessi rappresentanti hanno deciso di auto-rottamarsi ma anche le numerose e autorevoli voci di esperti e media che deplorano l’accaduto. Perché l’espressione “taglio” applicata ai parlamentari è il pendant dell’espressione “costi” applicata alla democrazia.
Il vocabolario di tagli e costi – vocabolario prettamente economico – ha incominciato ad essere applicato alla politica una trentina d’anni fa, dopo il 1989, negli anni che hanno cambiato gli assetti del mondo (con la globalizzazione supportata dalle nuove tecnologie), dell’Occidente (con la caduta del muro di Berlino e della cortina di ferro), dell’Europa (con l’entrata in vigore degli accordi di Schengen e di Maastricht) e più di tutti dell’Italia dove a tutti quegli eventi si è aggiunto il crollo della “Prima Repubblica” e la scomparsa di un sistema partitico noto come “bipartitismo imperfetto” perché basato sull’impossibile alternanza tra i due grandi partiti di massa, il Pci e la Dc, il primo escluso dal governo in virtù di assetti internazionali, il secondo a capo di diversissime coalizioni ora con il Psi ora con la costellazione dei piccoli partiti liberali e laici. Incominciò allora la grande trasformazione alla quale diedero un supporto decisivo la magistratura e i media.
Condotta in nome della lotta alla partitocrazia e alla corruzione essa è approdata alla delegittimazione della politica – e non solo, si badi bene, della classe politica – presso una popolazione da sempre critica nei confronti del potere ma al contempo, per secolare tradizione, fortemente e appassionatamente politicizzata. A tutto vantaggio delle forze economiche che nel nuovo contesto mondiale degli anni Novanta stavano cercando, con successo, di imporre il predominio dei mercati sugli stati.
L’operazione ideologica di delegittimazione della politica ha fatto da supporto a due percorsi politico-istituzionali: la diminuzione dei poteri dell’elettore e lo svuotamento dei poteri delle assemblee elettive, ovvero due percorsi che in nome del “popolo” (virtuoso) contrapposto ai “politici” (corrotti) hanno eroso i pilastri delle moderne democrazie. Sono infatti diminuiti progressivamente tanto i margini di libertà dei rappresentati nella scelta dei propri rappresentanti quanto quelli di libertà di questi ultimi nell’operare in nome dei primi.
E’ quindi aumentato il potere dei partiti che da facilitatori di una selezione democratica della rappresentanza sono diventati strumenti di assegnazione di seggi e incarichi ai fedelissimi di un leader e quello delle burocrazie che da apparati sottoposti al controllo delle assemblee elettive ne sono diventati i controllori ma a differenza dei primi non rispondono all’elettorato.
Il paradosso è che una parte di questi provvedimenti è stata approvata dalle stesse assemblee legislative che venivano così depotenziate e un’altra ha ricevuto per via referendaria l’entusiastico consenso del popolo che veniva spogliato delle sue prerogativa.
Punto di partenza del primo percorso è il referendum abrogativo detto della “preferenza unica”, promosso nel 1991 dal democristiano Mario Segni per abrogare quella parte della legge elettorale che consentiva all’elettore di esprimere, accanto al voto di lista, fino a quattro preferenze per singoli candidati. Che di questa facoltà si avvalessero singoli candidati per controllare il voto delle proprie clientele attraverso l’assegnazione individuale di diverse combinazioni di preferenze era (purtroppo) cosa nota.
Che la soluzione fosse di privare l’elettorato tutto del diritto di esprimere preferenze – magari rovesciando quelle espresse dagli apparati di partito – non appare per nulla ovvio. Eppure quel referendum venne approvato con una maggioranza del 95,6% da una massa di elettori (due terzi circa dell’elettorato aveva partecipato) che dobbiamo supporre onesti – altrimenti chi avrebbe impedito loro, nel segreto dell’urna, di bocciare il referendum? – e che sottoscrisse allegramente la punizione collettiva a causa di una minoranza di disonesti.
Seguì nel 1993 il referendum abrogativo che modificava in senso maggioritario la legge elettorale del Senato: partecipò il 77% degli elettori e si pronunciò a favore l’82,74%. Sulla scia di quel referendum venne approvata la legge elettorale nota come Mattarellum basata su collegi uninominali più una quota di proporzionale del 25% su liste bloccate. Gli elettori abituati a scegliere tra un ampio numero di liste si trovarono costretti entro due schieramenti, pena il buttar via i loro voti.
Non solo, gli elettori che fino a poco tempo prima potevano esprimere preferenze, supportando magari un outsider o una donna, trovarono nei loro collegi nomi di candidati provenienti da formazioni che mai avrebbero pensato di votare. Insomma come passare da un ristorante con offerta à la carte ad una mensa con due menu fissi e basta.
Si potrebbe osservare che la mensa popolare costa di meno. Giustissimo ed infatti in virtù di questo principio si è proceduto a svuotare le cucine e rivolgersi al fast food cioè al governo per decreti-legge e al prevalere delle leggi di iniziativa governativa su quelle di iniziativa parlamentare. Lo spostamento sistematico degli equilibri dei poteri dal legislativo all’esecutivo è peraltro un fenomeno che caratterizza tutta la Ue a partire dagli anni Novanta in nome della governabilità.
E’ avvenuto però in un contesto in cui l’integrazione europea, con la cessione dei poteri degli stati ad organismi sovranazionali, si era accompagnata a importanti processi di decentramento politico che di norma sono processi di rafforzamento della democrazia. In Italia, in particolare, le leggi 142/1990 di riforma degli ordinamenti comunali e 81/1993 sull’elezione diretta dei sindaci hanno aperto una stagione salutata variamente come del “federalismo dei comuni”, della “democrazia municipale”, della “Europa delle città” che fu stagione di grandi speranze in una nuova politica.
Ma mentre si effettuava il decentramento politico le leggi di riforma della pubblica amministrazione note come “pacchetto Bassanini” introducevano l’impossibile clausola della “separazione tra politica e amministrazione”che ha svuotato i consigli dei loro poteri. Gli accordi tra avversari elettorali vennero bollati come inciucio.
Fin nelle più piccole assemblee elettive di comuni o circoscrizioni, dove sopravviveva ancora il proporzionale, risuonò il mantra del “bisogna distinguere nettamente tra maggioranza e opposizione”, e guai a suggerire che per realizzare un giardinetto di quartiere, dare un contributo al parco giochi dell’oratorio o realizzare un piccolo evento culturale in periferia ci si potesse mettere d’accordo tra tutti gli eletti di quelle assemblee di prossimità.
Non è forse un caso che dopo l’entusiastica adesione alla retorica della moralizzazione per via giudiziaria e della governabilità tramite modelli istituzionali bipartitici e maggioritari di matrice anglo-sassone l’elettorato italiano sembra essere diventato più cauto e forse sospettoso.
Dopo il 1993 il trend si inverte. Nel 1999 il referendum abrogativo promosso da Segni per abolire la residua quota proporzionale non raggiunse il quorum. Nel 2006 viene respinto il referendum costituzionale promosso dal centro-destra che diminuiva drasticamente il numero dei parlamentari.
Nel 2016 viene respinto quello promosso dal centro-sinistra che voleva diminuire i senatori per risparmiare. Gli italiani nonostante tutti i discorsi sui costi della politica non appaiono in fin dei conti tanto disposti ad autoridursi il numero dei propri rappresentanti anche se li pagano di tasca propria.
Ciononostante gli eletti – con sprezzo per i propri elettori – hanno votato in massa (con qualche lodevole dissidenza) la legge nota col brutto nome di “taglio dei parlamentari”, e lo hanno fatto dichiaratamente in nome del risparmio (e dietro le quinte per calcoli di potere e convenienza).. Così ancora una volta nel discorso pubblico il paradigma costi/benefici, proprio del mercato, sostituisce quello della politica che è potere/consenso.
Ma se meno poltrone, meno eletti, significa meno costi e più efficienza (vedi Conte) il rischio è che prima o poi si giunga alla logica conclusione che l’ottimizzazione del rapporto costi/benefici si ottiene dando il comando ad un uomo solo.
Nessun commento