Informazione per sole donne: siete su un binario che nell’arco di un paio di generazioni vi porterà lontano dalle professioni più remunerative. Non sto dicendo che le farete con stipendi più bassi degli uomini ma che non le farete proprio, farete altro, e non perché il business è maschilista ma per gli studi che (non) intraprendete.
Può essere una cosa che a qualcuna non interessa e a chi, uomo o donna o altro, sente di avere una passione, un talento, un’ambizione che emoziona, nulla può dare la lettura di questo articolo che parte da proiezioni basate sulla redditività dei saperi. Ma alle donne che rivendicano la parità salariale forse può essere utile sapere che, nella vana aspettativa riposta in norme che alzino gli stipendi del genere femminile, si ridurrà il loro accesso alle carriere più redditizie?
Perché quest’ultime gravitano sempre più intorno alle conoscenze informatiche, o a vario titolo legate all’informatica, e le donne mediamente studiano altro. Ci sono validi esempi di progetti sociali finalizzati ad invertire questa tendenza, e la speranza di questo contributo è quella di stimolarne qualcuno su larga scala anche in Italia.
Occorre a questo punto però prima precisare cosa si intende per conoscenze informatiche o legate all’informatica. Siamo tutti ormai obbligati a saper smanettare con qualche strumento digitale, e questo ci da una misura della pervasività dell’ICT, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, un dato di fatto irreversibile che non deve essere visto come un fattore negativo né come un inedito storico.
L’essere umano è stato praticamente sempre un homo technologicus e le sue abilità tecniche hanno a loro volta influenzato la sua evoluzione. Basti pensare alla lavorazione della pietra dell’homo habilis (2,5 milioni di anni fa) o al controllo del fuoco dell’homo erectus (1,5 milioni di anni fa). Qualunque tecnologia ha i suoi utenti, ma anche i suoi produttori.
I più abili cacciatori non necessariamente erano i più abili a lavorare la pietra per fabbricare armi, ma per esigenze di sopravvivenza era necessario saper fare un po’ tutte e due le due cose. Oggi invece siamo tutti utenti del digitale ma solo alcuni di noi, pochi, lavorano nella produzione di queste tecnologie, ed ancor di meno sono quelli che le progettano.
Pochissimi gli ideatori, cioè gli innovatori che introducono sul mercato quelle che una volta si chiamavano Killer Application, o Killer App, idee che “ammazzano” la concorrenza. “Application” stava genericamente per applicazione pratica di una data tecnologia, solitamente informatica. Non esistevano le application per smartphone, perché i cellulari non erano ancora smart. Uno dei primi esempi di killer app fu il foglio di calcolo VisiCal (1978), un antenato di Excel della Microsoft.
Nel risalire la piramide che porta dagli utenti digitali agli ideatori innovativi, partendo dalla capacità non banale di produrre tecnologia, si ha a che fare in qualche misura con le conoscenze scientifiche proprie dell’informatica. Al livello dell’ideazione quello che sicuramente “serve” di questa scienza è almeno una conoscenza di base di cosa sia il coding, la programmazione, la scrittura di codice informatico, la capacità di produrre software.
Non necessariamente bisogna essere dei programmatori esperti, anche se da Bill Gates a Mark Zuckerberg la storia di chi ce l’ha fatta nell’ICT (che prima di internet era solo IT, tecnologie informatiche) annovera tanti nomi che sono stati anche professionalmente dei programmatori. Fa eccezione Steve Jobs che comunque non è stato esentato dalla gavetta tecnologica. Ma la pervasività del digitale sta anche nel fatto che diversi settori produttivi, a livello di middle management ed a volte anche a livello di top management, necessitano di persone con un mix di competenze tra le quali c’è spesso almeno una conoscenza base del coding, anche nella direzione business di un’azienda.
Si pensi ad esempio ad un antifurto per appartamento, ma anche ad un elettrodomestico controllabile tramite app come un moderno forno. Non solo le app di gestione di questi prodotti sono a loro volta prodotti software, ma dentro questi aggeggi c’è del codice informatico che consente il loro interfacciamento, tramite wi-fi, con le app. Il posizionamento sul mercato di un’azienda può dipendere a volte da una nuova funzionalità che non grava molto sulla sua direzione tecnologica, ma per pensare la quale nella direzione business qualcuno può essere stato stimolato dal sapere cosa “si può fare” mediante software.
Ebbene, care donne, voi al momento scarseggiate nelle aule dei corsi di laurea in informatica e ingegneria informatica, e quindi vi state mettendo “fuori” anche dalla possibilità di pensare ad una killer app. Ma la speranza, che è femmina, è l’ultima a morire. Ci sono varie iniziative nel mondo tese a stimolare l’interesse per il coding nelle bambine, e tra queste ritengo utile citare la no-profit Girls Who Code di Reshma Saujani, perché questa storia ci può dire tante cose.
Saujani è una donna statunitense di origini indiane (del subcontinente indiano, non è una pellerossa) che di recente è stata anche in Italia e in un’intervista a Io Donna ha dichiarato: “entro il 2020 negli Stati Uniti si creeranno un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro in ambiente informatico. Sto parlando di lavori molto ben pagati e con ottime possibilità di carriera. E quante sono, secondo le ricerche, le ragazze che aspirano a lavorare nell’informatica? Appena il 4 per cento”. Saujani è anche un avvocato, ma non si è mai occupata di vertenze sulla parità salariale.
Particolarmente significativo è che Girls Who Code risponde ad esigenze concrete della società statunitense, e questo ci dice che il problema quindi è mondiale (se lo vogliamo vedere come un problema). In Italia ovviamente non siamo messi bene. Più o meno negli anni ’70 abbiamo perso importanti treni nel settore delle nuove tecnologie, anche con azioni politiche come quella di favorire l’americana IBM nelle forniture informatiche strategiche per il paese a scapito dell’italiana Olivetti che da lì a poco, come azienda sul libero mercato, non potette più competere con la rivale americana che godeva dei finanziamenti statunitensi del settore militare, a cui si aggiunsero anche gli appalti pubblici in Italia di cui aveva bisogno solo per far fuori la Olivetti (un giorno ve ne parlerò di questa storia).
Da allora siamo uno dei tanti paesi che importa, assembla, integra, ma non produce (su larga scala) soluzioni ICT. E questo fissa comunque un limite anche a quello che le università possono fare per questo settore. A tutto ciò va aggiunta la bassa percentuale di donne che conseguono una laurea STEM (in discipline scientifiche e tecnologiche).
Io dico che non ci possiamo arrendere! Quindi, che fare? Tanto per cominciare possiamo studiare, o almeno leggere, e lo devono fare le donne, anzi le bambine. E’ stato tradotto in italiano un libro di Reshma Saujani indirizzato a lettrici in età preadolescenziale, e la stessa casa editrice sta pubblicando storie per la stessa fascia d’età che hanno il medesimo fine di avvicinare il sesso femminile al coding. Ci sono poi tante risorse didattiche on-line e tra quelle gratuite la Girls Who Code di Saujani, a cui mi ero rivolto per le mie figlie, mi ha suggerito Hour of Code della Khan Academy e la CS First di Google che ora è disponibile anche in italiano.
Ben inteso, ce ne possiamo anche fregare e lasciare che le cose vadano nella direzione intrapresa. Cosa ci perdiamo? Dal punto di vista salariale il divario di genere già c’è, e potremmo anche considerarlo come un fatto strutturale immodificabile, che probabilmente il saper realizzare software non compenserà. Ma sono convinto del fatto che il mondo potrebbe essere migliore se dietro all’ideazione, oltre che alla progettazione e alla realizzazione, dei prodotti digitali di largo consumo ci fosse anche l’altra metà del cielo.
Al momento possiamo notare ad esempio che le voci virtuali dei “servizi” vocali sono quasi sempre voci femminili, perché dietro le scelte di questi business ci sono per lo più uomini che pensano di farsi “servire” da una donna. E nessuna legge speciale o movimento di piazza può mettere in determinate posizioni aziendali donne che hanno studiato altro. Serve, a mio avviso, un cambio di paradigma nell’anima più rivendicativa del genere femminile, un salto in avanti nella comprensione reale di certe dinamiche. Da uomo, quindi dal di fuori, credo non siano stati funzionali a questa causa i balzelli di lato che il femminismo ha fatto negli ultimi anni. Mi riferisco in particolar modo all’ampliamento degli orizzonti verso la fluidità di genere e all’attenzione spasmodica per “argomenti” come il velo delle donne musulmane.
Nell’era digitale certe leve sono al momento strutturalmente in mano agli uomini. Ma sappiamo per certo che non ci sono cause genetiche in questo gap di genere, così come nessuna parte del mondo, e nessuna civiltà, ha avuto storicamente il ruolo fisso di rimorchio culturale, come può sembrare invece oggi.
Il termine algoritmo, procedimento di calcolo finito, viene dal nome del matematico, astronomo e geografo Muhammad ibn Musa alKhuwarizmi (780-850), da cui algorismo e poi algoritmo. Ma il primo algoritmo (di cui abbiamo traccia) pensato per essere eseguito non utilizzando carta e penna ma dandolo in pasto ad una macchina è stato ideato proprio da una donna, la matematica inglese Ada Lovelace (1815-1852).
In suo onore è stato scelto il nome del Linguaggio di Programmazione Ada. La cosa straordinaria è che la macchina allora a disposizione “non esisteva”, era cioè il progetto teorico della Macchina Analitica di Charles Babbage (1791-1871). Si trattava del progetto di una macchina da calcolo meccanica, quindi manco elettronica, e Ada Lovelace pensò ad un algoritmo per farla funzionare. Il progetto di questa macchina fu presentato per la prima volta alla comunità scientifica in occasione del Secondo Congresso dei Matematici Italiani tenutosi a Torino nel 1840.
Facendo un parallelo con un ipotetico computer fisicamente nella mani della Lovelace, per dirla in maniera neanche troppo semplificata, ella avrebbe solo dovuto scrivere l’algoritmo in un linguaggio di programmazione ed il risultato sarebbe stato un software. Alla Lovelance dobbiamo l’idea di utilizzare le macchine da calcolo (i calcolatori) per realizzare funzionalità più complesse che non fossero quindi di mero calcolo.
E’ un passaggio questo di importanza capitale, quello cioè di pensare ad uno strato (layer) applicativo che è la funzionalità vista dall’utente, e ad ad uno strato “inferiore” dove si realizza un procedimento di calcolo. Un’architettura informatica è sempre un’architettura a strati ed ogni strato “nasconde” il livello sottostante a quello sovrastante. Alla luce di tutto ciò, viene da chiedersi, dove sono finite le donne? Ma, ripeto, possiamo anche non occuparcene.
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