Ho trascorso gli anni tra il 76 e il 78 lavorando come maestro elementare in una scuola italiana a Salto, in Uruguay, città affacciata sul fiume che dà il nome alla piccola nazione sudamericana, proprio di fronte alla sua gemella Argentina, Concordia.
Penso sempre a quel breve periodo della mia vita con nostalgia. Ero ancora molto giovane, così giovane da considerare maturo, per non dire anziano, chi avesse anche solo poco più di trent’anni, ed ero felice di vivere un’esperienza unica in una regione affascinante; una terra dove la gente balla il Tango e beve il mate; dove ho mangiato la carne più buona del mondo e dove ho incontrato spesso persone generose, coraggiose e gentili.
Avevo casa sulla Costanera di Salto, cioè sulla passeggiata che costeggia l’Uruguay, un fiume con una portata tale da permettere un traffico fluviale piuttosto intenso di battelli e vaporetti carichi di merci e passeggeri, e sull’altra riva potevo vedere le casette di Concordia e lo scorrere in apparenza tranquillo della vita in quel lembo di terra argentina.
La scuola apparteneva ad una comunità di italiani al lavoro nella costruzione di un grande sbarramento fluviale, la diga di Salto Grande. Vivevamo in un mondo nostro dove il fatto stesso di essere italiani e di appartenere all’ambiente che ruotava intorno ai lavori di Salto Grande ci poneva al riparo dalle fatiche e dai rischi che invece doveva affrontare la gente del luogo. Non che ci mancassero contatti con la popolazione locale, ma gli uruguaiani e gli argentini che noi frequentavamo erano in maggioranza borghesi, quadri tecnici anch’essi impegnati nei lavori della diga, o estancieros, cioè proprietari di fattorie molto estese, dette estancias.
Insomma gente anch’essa in qualche misura privilegiata. Di quello che succedeva in quei giorni intorno a noi arrivavano eco smorzate, sussurri, chiacchiere sommesse. E a onor del vero di quelle chiacchiere non ci si preoccupava molto; anche se non era raro sentir dire che in cantiere il tale sindacalista, il tale tecnico, il tale ingegnere argentino non si era più presentato al lavoro senza che, almeno ufficialmente, se ne conoscesse di preciso la ragione, e quando te lo dicevano intuivi che la ragione era invece nota, ma che era meglio lasciarla non detta, era meglio non approfondire, che tanto che ci si poteva fare?
Nel marzo del 76, a conclusione di un periodo molto travagliato, a Buenos Aires, capitale argentina, una giunta militare con a capo il generale Jorge Videla prendeva il potere con un colpo di stato almeno in apparenza incruento.
Gli abitanti della metropoli si svegliarono in quella mattina di marzo, mese autunnale agli antipodi, senza che i loro occhi e le loro orecchie fossero offesi da visioni o rumori particolarmente inquietanti. Qualche autoblindo qui e là, soldati in tenuta da combattimento discretamente appostati in punti strategici: ministeri, TV di Stato, incroci stradali cittadini importanti.
Niente di eclatante, niente che potesse ricordare quanto era avvenuto in Cile qualche anno prima, nel settembre del 73 per la precisione, quando i militari, guidati da Augusto Pinochet, avevano rovesciato il governo frontista di Salvador Allende.
A Santiago del Cile, dopo aver bombardato il palazzo presidenziale della Moneda e ucciso Allende, l’esercito cileno aveva scatenato una gigantesca caccia all’uomo arrestando in massa gli oppositori e aveva ammassato i prigionieri negli stadi.
In Argentina nulla di simile era avvenuto. Il mondo intero pensò con grande superficialità che a Buenos Aires la giunta militare stesse semplicemente restaurando l’ordine, quell’ordine che il peronismo, dal ritorno di Juan Peròn in patria nel 74 fino al governo presieduto da Isabelita Peron, sua seconda moglie, non era riuscito ad ottenere. Isabelita Peròn, vedova del fondatore del movimento, fu deposta dalla presidenza della repubblica e il suo governo fu ufficialmente dichiarato decaduto. In silenzio la giunta militare argentina procedette all’arresto degli oppositori.
Iniziò dapprima una caccia spietata a tutti coloro che avevano partecipato o erano stati contigui alla guerriglia, come i montoneros che erano peronisti di sinistra e l’Erp (Ejercito revolucionario del pueblo) che era un’organizzazione di ispirazione guevarista, ma ben presto la repressione colpì anche chiunque non approvasse con entusiasmo l’operato dei militari.
Gli arresti erano eseguiti di notte. Le persone, in maggioranza giovani e giovanissimi, erano arrestate nelle loro abitazioni, venivano prelevate e ai famigliari, per avere i dettagli della detenzione dei loro cari, si diceva di recarsi il giorno dopo presso il commissariato di polizia più vicino. Quando però questi andavano dalla polizia, così come era stato detto loro, si sentivano rispondere che del congiunto in questione non se ne sapeva nulla, che non si sapeva neppure di cosa si stesse parlando.
Circa trentamila, ma è una cifra molto approssimata, furono i desaparecidos, cioè letteralmente “gli scomparsi”, le persone ingoiate nel maelstrom spaventoso della cosiddetta guerra sucia, cioè guerra sporca. Furono tutti straziati da torture orrende, tutti ridotti alla perdita di ogni dignità, – ho sentito di prigionieri costretti a riparare gli strumenti di tortura- e quando non ci si poteva più aspettare nessuna delazione, perché ormai tutto era stato estorto, quando i prigionieri erano ormai ridotti a poveri esseri senza quasi più sembianza umana, li trasportavano in un aeroporto militare dove, prima di imbarcarli su un aereo, si praticava loro un’iniezione di Pentotal.
L’aereo decollava e raggiunta una certa quota, lasciava cadere il suo carico di esseri umani nell’Atlantico o, più spesso, in quel tratto di mare che va sotto il nome di Mar del Plata, ampio bacino idrico formato dalla confluenza dei fiumi Uruguay e Paraguay.
Nel giugno del 78, cioè nell’anno che con tutta probabilità è stato il più nero di questa storia nerissima, l’Argentina ospitò i mondiali di calcio. La giunta militare colse l’occasione per presentarsi al mondo intero come legittima rappresentante di un paese che stava brillantemente uscendo da una fase storica tribolata, che per far questo qualche eccesso era stato necessario, ma che in fondo quello era il prezzo pagato per ritornare alla normalità; e in questa patria restaurata, in questo ordine ritrovato, la giunta guidata da Videla avrebbe offerto al mondo lo spettacolo dei mondiali di calcio.
In Italia questa narrazione, questa grande operazione di marketing fu sostanzialmente accolta senza grandi problemi. Il giornale italiano che più si distinse nell’avallare e nel promuovere l’immagine di un’Argentina paese pacificato, dove magari recarsi per godere dal vivo i mondiali, fu il Corriere, sì il Corriere della Sera, et pour cause.
Direttore del giornale in quegli anni era Franco Di Bella, tessera nr. 1887 della P2, la loggia massonica di Licio Gelli, e Licio Gelli aveva legami fortissimi con i militari argentini e la loro giunta assassina.
Ricordo molto bene quei mondiali. Per noi che li guardavamo da Salto dell’Uruguay, furono mondiali ancora in bianco e nero. L’Italia di Bearzot fu una rivelazione e noi italiani espatriati eravamo molto fieri delle imprese di Paolo Rossi e compagni. Fu in quei mondiali che nacque il mito di Pablito Rossi, quel centravanti non possente fisicamente ma velocissimo nei movimenti e molto tecnico che riusciva a mettere la palla in rete con una rapidità sbalorditiva. Ricordo che la gente a Salto ci fermava per strada se ci sentiva parlare italiano, per farci i complimenti, per dirci con aria di chi si intendeva di calcio che l’Italia, …tiene un muy buen ataque y una muy buena defensa. Verissimo, quella nazionale aveva davvero un ottimo attacco e un’altrettanta ottima difesa.
Il mese di giugno da quelle parti è ormai autunno inoltrato; sul fiume verso sera si alzava spesso una nebbia che ovattava il paesaggio. Mi soffermavo a guardarlo quel fiume, e spesso guardavo le luci di Concordia sulla sponda argentina e poi portavo lo sguardo più in là verso Buenos Aires, dove sognavamo l’Italia in finale. Due siluri olandesi che Dino Zoff non riuscì nemmeno a veder partire ci negarono la gioia della nazionale in finale.
La finale la giocarono l’Olanda e l’Argentina, e l’Argentina la vinse per 3 a 1. Fu per Videla, Massera e gli altri generali della giunta un successo di immagine straordinario. Jorge Videla in persona consegnò la coppa del mondo nelle mani del capitano della nazionale albiceleste, Daniel Pasarella.
In quel preciso istante nella Escuela Mecanica de la Armada (ESMA) situata a Buenos Aires, le urla dei torturati furono sovrastate dalle grida di entusiasmo della folla di Buenos Aires festante, impazzita di gioia.
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