Le forze di sicurezza turche hanno arrestato 287 appartenenti all’ISIS, la maggior parte di loro stranieri, ora il ministro dell’interno turco Suleyman Soylu chiede con forza ai paesi, soprattutto europei, di assumersi le loro responsabilità.
Il ministro degli interni turco, Süleyman Soylu, nel suo discorso in occasione dell’apertura di un corso di formazione per ufficiali di polizia, ieri, ha commentato le prime statistiche sugli arresti di appartenenti dell’ISIS nel nord della Siria.
Secondo i dati del Ministero, nel territorio interessato dalla missione militare “Sorgente di pace”, le forze di sicurezza turche hanno arrestato 287 appartenenti al ISIS, o meglio al Daesh, come si preferisce chiamare l’organizzazione qui in Turchia.
Dei fermati, 45 sarebbero cittadini turchi che sono stati già consegnati alle autorità giudiziarie (nel caso abbiano commesso reati) o ai programmi di riabilitazione, studiati per smontare l’ideologia estremista.
Gli altri, però, sarebbero stranieri di 19 nazionalità diverse. In questi giorni sono sotto interrogatorio per accertarne l’identità e verificare il loro ruolo nell’organizzazione terroristica.
Per coloro che non saranno processati in Turchia, il ministro chiede un ruolo più attivo dei loro paesi di origine e il rimpatrio. Alcuni di questi paesi, come Gran Bretagna e Australia, hanno già privato della cittadinanza alcuni militanti e quindi non sono facilmente rimpatriabili.
Altri governi hanno pochissime intenzioni di collaborare perché i militanti non sono processabili in quanto non hanno commesso crimini nel paese di origine e, per i crimini commessi in territorio siriano o iracheno, le prove che li incriminano non sono state raccolte secondo gli standard dei loro codici di procedura penali.
Il ministro Soylu, che è famoso per le sue posizioni nazionaliste e per la sua durezza, però, non vuole che la Turchia accolga militanti del Daesh di altre nazioni. Le forze di sicurezza turche hanno sicuramente tardato a capire l’importanza e la pericolosità del Daesh nei primi mesi di esistenza e quando i militanti hanno abusato della politica di confini aperti per transitare attraverso la Turchia verso la Siria.
Il paese, però, ha pagato questo errore con un prezzo altissimo in vite umane. Basti ricordare l’attacco al corteo di manifestanti davanti alla stazione ferroviaria di Ankara nell’ottobre 2015, che uccise 109 innocenti, o il kamikaze che uccise 57 persone durante un matrimonio a Gaziantep nell’agosto del 2016. Un errore che certamente il ministro non vuole ripetere.
Soylu, dunque, avverte che, anche se i paesi di origine non collaboreranno, lui ha l’intenzione di mandare a casa tutti i militanti stranieri proprio perché “la Turchia non è un albergo per i militanti dell’ISIS“. Il ministro non ha spiegato come ha intenzione di procedere, visto che i rimpatri sono possibili solo all’interno di convenzioni bilaterali.
Questa determinazione del ministro dovrebbe attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla questione. Al di fuori del territorio controllato dalla Turchia in Siria, esistono campi dove sono detenuti migliaia di militanti e di loro familiari senza nessuna prospettiva.
Il più grande campo di detenzione è al-Hawl, vicino al confine con l’Iraq, ancora sotto il controllo delle milizie curde. Ci sono detenute poco più di 68 mila persone, delle quali il 94% è composto da donne e bambini in precarie condizioni umanitarie.
Gran parte dei paesi si rifiutano di rimpatriare i propri cittadini perché rappresentano una potenziale minaccia e l’opinione pubblica è generalmente contro un intervento a loro favore. Eppure le opinioni pubbliche di diversi paesi per i militanti processati in Iraq, hanno chiuso un occhio, forse entrambi, sui i loro processi e eventuali condanne a morte.
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