Radwa Mohammad, 25enne egiziana, è scomparsa da martedì scorso e di lei si sono perse le tracce. L’ultimo suo messaggio, il 12 Novembre, inviato all’imprenditore e attore Mohammad Ali, diceva “mi stanno arrestando, ho paura”.
È bastato un video postato sui social dove ha accusato il regime egiziano di Al Sisi di corruzione e mala gestione della cosa pubblica per farla sparire.
L’inferno delle carceri egiziane
Liman Torah, Abu Zabal, Wadi Natron e Aqrab. Questi 4 complessi carcerari sono le principali destinazioni degli arrestati per motivi politici: oppositori, giornalisti, attivisti. Amnesty International riporta testimonianze di prigionieri uccisi o di familiari di detenuti che accusano le autorità carcerarie di maltrattamenti, percosse e abusi sessuali. Non solo, durante i processi i detenuti accusano i secondini di torture subite con elettricità, acqua fredda e altre forme di coercizione fisica e psicologica.
Il sistema del controllo
L’apparato dedito al controllo, il fermo e l’arresto è un sistema intrecciato, complesso e a più livelli. L’intelligence si divide in due rami: quella militare e quella civile. Entrambi lavorano alla raccolta e schedatura continua dei soggetti potenzialmente pericolosi: sindacati, politici di opposizione, giornalisti chiunque rappresenti, secondo i loro criteri, un pericolo per la stabilità del regime. Giulio Regeni è finito proprio nella rete dei servizi militari e civili per le sue ricerche sui sindacati egiziani e non ne è uscito vivo, sospettato di essere una spia è stato brutalmente assassinato. Accanto ai servizi segreti, c’è il Servizio di Sicurezza dello Stato (o Amn Al Watani), formato da diverse migliaia di uomini, a cui è affidato il compito di fermare, arrestare, incarcerare sulla base delle informazioni che i servizi segreti gli inviano. Nelle fasi di fermo del sospetto spesso ci sono anche poliziotti e i temutissimi baltageya, criminali assodati da boss della malavita locale che lavorano per conto del regime, utilizzati come sicari per minacciare oppositori e manifestanti. Ed è da qui, dallo stato di fermo di un sospettato, che ha inizio il viaggio all’interno del buco nero delle carceri egiziane, definite tombe da HRW e la fine dell’umanità da Amnesty International.
Kareem Taha, uno dei detenuti intervistati nel report di Amnesty riporta questa testimonianza:
Dopo diversi giorni passati in cella in assoluto isolamento e dove mancava tutto: l’illuminazione, aria, servizi igienici, un letto e cibo, una notte sono entrati nella mia cella degli uomini col volto coperto, mi hanno strappato i vestiti con la forza e una guardia ha sfilato la cintura di cuoio e ha iniziato a picchiarmi in tutte le parti del corpo. Dopo un po’ mi hanno ammanettato e mi hanno costretto ad inginocchiarmi e mettere la mia testa dentro un secchio usato nelle celle per defecare e raccogliere gli escrementi.
Oltre alle carceri civili, in Egitto esiste una vasta rete di carceri militari suddivise tra il Nord dell’Egitto e il Sinai, che secondo Al Jazeera sarebbero stati utilizzati come zone di detenzione all’interno del programma Extraordinary Rendition della Cia che ha coinvolto anche il nostro paese col caso Abu Omar. In totale 180 le carceri civili, 10 militari e circa 300 i punti di fermo e detenzione provvisoria presenti in tutto il paese, numero che è in continua crescita: un decreto del governo del 1956 infatti permette la costruzione di complessi detentivi senza limiti di numero e grandezza.
Ad oggi secondo Al Jazeera sarebbero 16 mila i detenuti per motivi politici sotto il regime del generale Al Sisi, trattenuti in condizioni di disagio come riportano le Ong impegnate sul campo. La magistratura egiziana dal 2013 ad oggi ha emesso più di mille condanne a morte in attesa di esecuzione contro dissidenti politici. Il generale Al Sisi smentisce categoricamente che in Egitto ci siano detenuti per motivi politici.
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