“Portare il velo è il più grande segno di emancipazione di una donna. Oggi come oggi, un atto ribelle e femminista.” Tranquilli, non vi spoilero nulla, farò solo una breve recensione di questo romanzo, Quello che abbiamo in testa.
Forse penserete che sia un romanzo rivolto ai non musulmani per smontare i loro pregiudizi nei nostri confronti. Probabilmente anche. Ma questo romanzo è soprattutto per noi, noi musulmani, che dobbiamo svegliarci.
Prima di entrare nel merito del romanzo e capire cosa siamo tenuti a fare noi musulmani, chiariamo il concetto di femminismo. Primo stereotipo da sradicare: il femminismo non è il maschilismo al contrario come molti pensano. In generale, il femminismo è un movimento, o meglio un’ideologia, che si pone l’obiettivo di annullare le disparità di genere. E fin qui tutto regolare, tuttavia definirsi “seguaci del femminismo” è dire tutto e niente, perché, sebbene l’idea di base sia ampiamente condivisa, le modalità con cui raggiungere i propri fini e altri aspetti secondari differiscono da società a società e sono in continuo mutamento.
Quindi capite bene che considerare il femminismo come un nemico da combattere è abbastanza controproducente proprio perché questo nemico è indefinito.
Alcuni musulmani vedono il femminismo come una minaccia all’integrità dell’Islam, un veleno che eroderà gradualmente tutti i valori islamici forzando i musulmani a cambiare le tradizioni religiose per adottare gli ideali e le norme liberali occidentali. Quindi, questi stessi musulmani indirizzano i loro sforzi interamente verso la confutazione del femminismo, trascurando le questioni di fondo che spingono le donne ad avvicinarsi ai movimenti femministi.
Prima di capire le ragioni per cui il femminismo non è e non può essere compatibile con l’Islam, dovremmo raddoppiare i nostri sforzi per comprendere l’approccio islamico alle questioni di genere e attuarlo nel nostro contesto familiare, nelle moschee, nelle organizzazioni e in tutta la comunità. Invece di puntare il dito contro le influencer femministe che stanno allontanando i musulmani dalla loro fede, dovremmo prima ritenerci responsabili per non riuscire a comportarci in modo coerente con gli insegnamenti profetici.
Le donne musulmane nel corso della Storia sono state leader tra i sapienti ed esperte in vari settori. Da Aishah, la moglie del Profeta (pbsl) che ha corretto le sue controparti maschili in materia di ahadith (detti attribuiti al Profeta Muhammad ) e giurisprudenza e Nusayba bint Kaab che ha combattuto a fianco del Profeta (pbsl) in battaglia, a Sutayta al-Mahamli che ha trovato la soluzione ad alcune delle più complicate equazioni matematiche del suo tempo e la regina Amina di Zaria che ha protetto il suo regno, le donne musulmane hanno fissato standard senza precedenti nel servizio alle loro comunità.
Eppure, nonostante questa ricca Storia, siamo riusciti a cancellare dalla nostra memoria i loro contributi e riscrivere le loro storie per allinearle alle nostre aspettative di donne come figure marginali. Sta a noi far rivivere queste storie e infondere forza e motivazione nelle nostre donne, nei giovani e meno giovani, al fine di responsabilizzare l’attuale generazione e coloro che verranno per permettere a tutti e a tutte di raggiungere il loro pieno potenziale per servire gli altri e in primis per servire Dio.
Ci sono molte idee che avanzano sotto l’etichetta di “femminismo” e contraddicono chiaramente l’Islam. L’unico modo per evitare le insidie di queste ideologie è guardare oltre le etichette, valutando i concetti stessi avendo una solida base della tradizione islamica. Se confidiamo nell’Islam, nelle sue fonti e nella sua metodologia, riusciamo ad ordinare teorie complesse tenendo ciò che è buono e scartando ciò che non si allinea alla nostra religione.
Tornando alla frase provocatoria di Sumaya Abdel Qader, il velo come “atto ribelle e femminista”, perché?
Perché, come spiega la protagonista del romanzo, trasgredisce un modello, l’idea dominante di donna nella nostra società, quando però è il risultato di una scelta libera e consapevole.
Non si nega assolutamente che esistano donne a cui è stato imposto, non si nega che nelle società musulmane il maschilismo è la norma, non si nega che cambiare la mentalità arretrata causata dai retaggi culturali sia difficile, ma si mostra e si dimostra che c’è un’altra visione della realtà, che siamo in grado di cambiare la realtà.
Non scocciamoci perché le persone generalizzano, perché pensano che siamo tutti uguali, abbiamo invece il coraggio e la forza di mostrarci per quello che siamo, per cambiare le cose che non funzionano nella nostra comunità. Dobbiamo essere difensori della nostra religione e non permettere che i retaggi culturali si sostituiscano ad essa. Quando davvero le condizioni della nostra comunità miglioreranno, sarà più facile sradicare i pregiudizi, sarà più facile farci rispettare, sarà più facile farci ascoltare.
Questo romanzo è un invito a tutti noi ad aprire gli occhi e la mente e a darci da fare, a capire le esigenze dei giovani, a studiare! Ebbene sì, a studiare la nostra religione. Come pretendiamo di farla conoscere agli altri se neanche noi la conosciamo (e la applichiamo)!
Questo romanzo parla di tutti noi, della nostalgia di una terra su cui non abbiamo vissuto, dell’incertezza del domani, di una lingua sconosciuta ai genitori, e quindi dell’assenza di comunicazione, dell’amore, quello permesso e non permesso, l’amore per i non musulmani, le coppie miste e le loro famiglie, le difficoltà che vivono i convertiti, il sentirsi straniero o ‘ajnaby’, i matrimoni combinati, del processo di de-hijabization (le ragazze che abbandonano il velo), dell’amicizia tra ‘simili’ e ‘diversi’ anche troppo diversi, della diversa concezione di nudità e pudore, dell’educazione dei figli tra lavoro, università e volontariato, delle moschee per TUTTI.
È un libro che parla di noi e per noi, vi consiglio di leggerlo e di rifletterci su.
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