Mi piacerebbe commentare l’ultimo lavoro uscito sulla prestigiosissima rivista scientifica Science Immunology, a proposito del morbillo. Lavoro molto interessante che ha suscitato in me molte perplessità, ma secondo il pensiero corrente non posso, non sono un immunologo, rischierei di essere tacciato di parlare di un ambito che non mi compete.
Nel contempo mi chiedo, se essendo io un medico, accettassi di non poter commentare un lavoro specificatamente immunologico, perché dovrei accettare che dei giornalisti scientifici, i quali non sono altro che sacchi postali, cioè capaci solo di recapitare la notizia senza entrarne nel merito, abbiano una legittimità maggiore della mia e quindi abbiano la possibilità di amplificare con il loro lavoro una notizia ritenuta aprioristicamente come vera?
Secondo lo studio in questione, il morbillo sembra resettare la memoria del sistema immunitario, lasciando in molti ma non tutti i casi, in chi lo contrae, un sistema immemore delle malattie già identificate in passato. Ma questo non vuol dire che sia necessariamente una cosa negativa, perché dovrebbe esserlo? Magari in futuro potremmo capire che il morbillo potrebbe essere protettivo verso le malattie autoimmuni. Perché no? D’altra parte l’epidemia di malattie croniche che sembrano avere la loro genesi in un sistema immunitario disturbato non ha ancora spiegazioni plausibili. E perché dovrebbe essere più razionale il suggerimento, a prima vista privo di qualsiasi buon senso, che se prendi il morbillo devi rifare tutti i precedenti vaccini?
Più in generale, è giusto procedere a conclusioni generali partendo da risultati di studi estremamente specifici, studi che guardano alla singola molecola nel mare della complessità del creato? Se si, si potrebbe arrivare a conclusioni antitetiche a seconda della filosofia di base di ciascuno, come in questo caso, dove evidentemente il pensiero della maggioranza dei commentatori sottintende la negatività dell’effetto del morbillo sulle cellule del sistema immunitario, mentre il mio di pensiero parte dal presupposto che debba esistere un equilibrio, un’armonia insita nella simbiosi esistente in natura tra noi e tutto ciò che ci circonda.
Chiaramente qui si aprono numerosi possibili interrogativi che hanno a che fare con la libertà del medico, come ad esempio: conformarsi al pensiero considerato più autorevole ovvero più specialistico è veramente un ragionamento scientifico o solamente servilismo? Mi è stato insegnato e aderisco liberamente al principio di consigliare i miei pazienti in scienza e coscienza, conformarmi al pensiero dominante è rispettare questo principio? O forse dovrei avere un doppio pensiero, uno intimo individuale ed uno ufficiale da medico?
Ma credo che per rispondere a tutte queste domande dovremmo cercare la radice o forse più probabilmente una delle radici del problema, credo che la domanda da porci primariamente sia: cosa è che compete al medico? Sembra strano a dirlo, ma la risposta che sarebbe parsa ovvia a tutti i medici di tutte le epoche precedenti, e cioè che quello che quello che compete al medico è l’uomo, oggi sembra antitetica, irreale, anacronistica.
Oggi al cardiologo compete il cuore o al massimo il sistema cardiocircolatorio se è un vecchio clinico, ma un giovane specialista cardiologo potrebbe rispondere che a lui competono le coronarie o il fascio di His.
Non è che l’oramai imprescindibile specializzazione è divenuta più che un approfondimento un limite?
In effetti il medico sembra aver perso di vista l’uomo come suo obiettivo e competenza, e il pensiero medico sembra aver accettato completamente questo stato di cose.
Non è forse tempo di fare marcia indietro? Nelle università bisognerebbe forse ritornare a studiare il temuto grande esame di patologia medica spezzato oramai in coriandoli di decine di piccoli esami.
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