Da giovedì 21 novembre la Colombia è attraversata da imponenti manifestazioni, la società civile, gli universitari, i lavoratori sono scesi in piazza dichiarando lo sciopero generale per manifestare contro le politiche di Ivan Duque, il cui governo è coinvolto in scandali di corruzione, ha sabotato il processo di pace con gli ex guerriglieri delle FARC e intrapreso riforme che colpiscono duramente la classe media e i ceti popolari.
La Colombia è stata governata fino ad oggi dai mantra della paura. Slogan che fanno leva sulla paura dei “buoni colombiani” di perdere la tranquillità, in un paese di esiliati, sfollati, condannati a gioire delle briciole e della mediocrità. Ma il processo di pace ha aperto un varco nella coscienza di una società paurosa e violenta, che preferiva la guerra perfetta, alla pace imperfetta che era stata negoziata dal governo Santos.
Un paese in cui tutti i suoi cittadini hanno vissuto in uno stato di guerra, abituati e insensibili alla morte violenta dei più deboli, abituati allo spargimento di sangue tra colombiani in uniforme, la pace sconosciuta rappresenta uno scenario inquietante che in invece di generare ottimismo, ha suscitato una grande angoscia e sfiducia. Inoltre, è emersa una delle caratteristiche più squilibrate di questa società: il desiderio di annientare i nemici indicati dagli stessi registi dei mantra dell’odio, ma a condizione che siano i più vulnerabili, vite dei quali non valgono molto, quelli che dovranno morire sul campo di battaglia.
La costante agitazione della minaccia di diventare come il Venezuela, ha fatto si che i colombiani abbiano avuto paura di perdere ciò che non hanno e credendo di essere migliori del paese vicino, hanno votato per Iván Duque, “l’uomo indicato da Uribe“: un uomo inesperto, con i capelli tinti di grigio per sembrarlo; un totale sconosciuto senza una storia, messo a dirigere e definire la linea da seguire per un paese che aveva appena stabilito accordi per costruire la pace.
Nel frattempo, in Colombia c’è stato un adeguamento del numero di ciò che l’ex presidente Uribe aveva definito “uccisioni posticipate della guerra” ed è così nel frattempo da quando Duque è presidente più di 220 leader sociali, contadini, e politici locali sono stati assassinati. Gli accordi di pace sono stati violati, producendo una crisi nel partito dei guerriglieri smobilitati delle-FARC-, per cui una minoranza di loro ha deciso di riprendere le armi e tornare nella giungla. Visto dal peso colombiano il dollaro è alle stelle, sintomo dell’inflazione che inizia a colpire i colombiani. Le riforme del mercato del lavoro e delle pensioni, i tagli all’istruzione e una corruzione fuori controllo hanno scatenato una crisi senza precedenti in settori come la salute ad esempio.
Altra cosa che ha destato indignazione è stata l’intenzione di unificare i tribunali per garantire impunità alla parapolitica (scandalo sui legami tra la politica e i paramilitari-narcos usati come forse di contro-guerriglia) e dei suoi leader tra cui lo stesso Uribe.
Ulteriore indignazione hanno suscitato due fatti estremamente gravi: il Centro democratico nelle ultime elezioni locali aveva addirittura presentato candidati con al polso un braccialetto di sicurezza del carcere e l’esercito colombiano, come “effetto collaterale” di un bombardamento ha ucciso 18 minori a nella regione rurale del Caquetá. Il paese quindi inizia a rendersi conto di quelli che erano i benefici del processo di pace portato avanti dal governo dell’ex presidente Juan Manuel Santos.
La società colombiana ha perso un po’ dell’innocenza tipica di un popolo con scarsa cultura politica e grazie al web, grazie all’accesso alle informazioni e a ciò che sta accadendo in paesi come l’Ecuador e il Cile, e al fatto che gestione dell’opinione pubblica oggi non è più esclusivo appannaggio dei due canali di notizie dei canali privati .
Nonostante i messaggi diffusi dal governo per intimare alla gente di non partecipare il 21 novembre allo sciopero convocato dalla società civile, movimenti sociali, studenti e sindacati la Colombia è scesa in piazza a marciare. Nelle città normalmente le manifestazioni seguono un percorso ben preciso e limitato, questa volta volta i manifestanti erano ovunque, hanno invaso le città.
Nuovi attori politici si sono messi in luce, una delle novità più rilevanti è che affianco alle sempre presenti università pubbliche ora anche le prestigiose università private che hanno organizzato le ultime manifestazioni per difendere i bilanci dell’istruzione pubblica, moltissimi i giovani nelle strade, determinati a rovesciare questo malgoverno e la struttura di potere che lo sostiene.
L’annuncio della marcia è bastato a preoccupare il governo che vedeva arrivare l’onda lunga delle grandi mobilitazioni che hanno scosso la regione dal Cile all’Ecuador, così Duque ha dato vita ad una campagna di propaganda mirata a smentire le riforme che il governo ha in cantiere e a intimorire i colombiani dicendo che i manifestanti vorrebbero toccare la proprietà privata dei cittadini, come se la maggioranza dei colombiani avesse almeno una casa di proprietà per giunta.
Il 21 novembre la gente è scesa in piazza cantando e ballando nonostante la militarizzazione delle città e i gas lacrimogeni profusi in abbondanza per disperdere le marce, i cittadini hanno resistito anche ai blindati e agli infiltrati che distruggevano tutto per addossare la colpa a chi protesta.
E dopo la giornata di protesta, una volta rientrata a casa, la gente iniziava con una specie di cazerolazo, un concerto di pentole e posate che risuonava in tutta la città una cosa mai vista prima, dalle zone più popolari a quelle più esclusive di Bogotà.
La Colombia, il paese delle marce di un giorno, sembra voler continuare lo sciopero ad oltranza senza cedere alle minacce del governo.
Queste percussioni metalliche ricavate dai forni della case colombiane hanno riempito di ottimismo la gente e generato uno spirito di fratellanza che questa società non aveva mai assaporato. I colombiani sono stanchi dei discorsi di guerra e di odio.
Sembra che oggi la Colombia sia pronta a chiedere ai suoi governanti responsabilità, impegno e dignità ed è possibile che questo clamore latinoamericano sia la porta d’ingresso verso l’integrazione regionale che dobbiamo a noi stessi, come disse Vicente Salías in una delle strofe dell’inno del Venezuela: “unita coi lacci creati dal cielo l’America tutta esiste in una nazione e se il dispotismo alza la voce, seguite l’esempio che Caracas ha dato”.
Nessun commento