Si riunirà oggi a Kuala Lumpur, capitale della Malesia, il consesso dei leader di alcuni dei più importanti paesi a maggioranza musulmana per affrontare questioni come l’islamofobia e la povertà. Presiederà il summit il primo ministro malese Mahathir Mohamad ed è prevista la partecipazione di Hassan Rouhani, presidente iraniano, Recep Tayyip Erdogan dalla Turchia e Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani emiro dello Qatar.
Si prevede che saranno non meno di 250 i rappresentanti stranieri provenienti da 52 Paesi, oltre a 150 delegati del Paese ospitante, e tra loro anche studiosi e personalità della società civile.
Spiccano tra gli assenti i vertici d’Indonesia, Arabia Saudita e Pakistan.
Fonti di stampa malesi sostengono che il presidente pakistano Imran Khan abbia dato forfait dopo che nello scorso fine settimana si è recato in Arabia Saudita e aveva incontrato Mohamed Bin Sultan. Sembra che a fronte della disastrosa situazione finanziaria del Pakistan, l’Arabia Saudita avrebbe concesso un prestito di 6mld di $ e promesso investimenti per altri 20 mld. La prima contropartita politica sarebbe appunto la non partecipazione di Imran Khan al summit di Kuala Lumpur.
Paradossale inoltre il fatto che la prima proposta per questo incontro era stata lanciata dallo stesso presidente pakistano durante i colloqui con Erdogan e Mahathir lo scorso settembre a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York .Il Pakistan sarà comunque rappresentato dal ministro degli esteri Shah Mehmood Qureshi.
Altamente significativa la presenza di Rouhani, in un consesso dominato da potenze sunnite, il Presidente iraniano ha dichiarato che la sua presenza a Kuala Lumpur fa parte di una politica volta a perseguire “legami più stretti con i principali paesi asiatici”.
E’ evidente che l’Iran oppresso dalle sanzioni USA cerchi di uscire dall’isolamento e ha trovato sponda in quanto affermato dal presidente malese Mahathir che le ha definite “una violazione del diritto internazionale”
Dal canto suo Samsudin Osman, segretario generale del vertice, ha affermato che l‘evento, un’iniziativa di Mahathir, cerca affrontare fattivamente “la difficile situazione dei musulmani” in tutto il mondo. “Abbiamo bisogno di qualcosa di concreto … che i governi impegnati nell’idea possano attuare”, ha aggiunto e che l’evento cerca anche di correggere molti preconcetti sull’Islam come religione.
Quanto alle critiche rivolte all’iniziativa, che secondo i detrattori tenderebbe a creare un organismo permanene in competizione con l’Organizzazione per la Cooperazione islamica (OIC). Osman ha ironizzato dicendo che taluni si sono spinti troppo in la con le interpretazioni.
Rais Hussin, presidente e amministratore delegato del gruppo di ricerca indipendente Emir Research, ha affermato che il vertice dovrebbe essere “autentico e non una messa in scena fine a se stessa” e che non dovrebbe essere “orientato da gruppi nazionalisti-religiosi “.
In un articolo pubblicato martedì su Malaysiakini, Hussin ha anche invitato i partecipanti al vertice a offrire soluzioni concrete per migliorare gli scambi tra e all’interno dei paesi musulmani e ha sottolineato che l’intero mondo musulmano contribuisce solo per il 5% al prodotto interno lordo (PIL) globale quando in termini demografici, i musulmani rappresentano circa un quarto della popolazione mondiale.
Queste le cinque questioni principali che il summit si propone di affrontare:
La crisi dei rifugiati rohingya
Più di 730.000 Rohingya sono fuggiti dal Myanmar in seguito ad una brutale repressione militare nello stato occidentale di Rakhine nell’agosto 2017, molti di loro vivono ora nel vicino Bangladesh, un paese a maggioranza musulmana con 161 milioni di persone.
Secondo le Nazioni Unite i militari del Myanmar hanno perpetrato violenze contro i rohingya con “intenti genocidari” e che gli appartenenti a questa etnia che rimangono nel paese corrono un “serio rischio di genocidio”.
A tal proposito la Gambia per conto dell’OIC, ha presentato una denuncia che è attualmente pendente presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia.
Durante un’udienza nella scorsa settimana, la leader del Myanmar Aung San Suu Kyi ha difeso l’azione militare affermando che il procedimento contro il suo Paese era “incompleto e fuorviante”.
Detenzioni di massa degli uiguri in Cina
Nell’estrema regione occidentale dello Xinjiang, persone appartenenti alla minoranza uigura e ad altri gruppi etnici musulmani sono detenute in campi che il governo cinese presenta come “centri di formazione per le competenze professionali” e che sono “necessari per combattere l’estremismo”.
Secondo le stime delle Nazioni Unite circa un milione di persone sono state internate e gli attivisti dei diritti umani sostengono che sia per costringerli a rinunciare ai principi della loro fede, impedir loro di pregare e indurli a rinunciare ai precetti alimentari della loro religione.
Guerra nello Yemen
Dall’invasione saudita dello Yemen nel 2015, oltre 100.000 persone – per lo più civili – sono state uccise in un conflitto che secondo le Nazioni Unite ha creato la peggiore crisi umanitaria al mondo.
Dati ONU parlano di 18 milioni di persone alla fame di cui almeno 12 milioni di bambini che sono esposti ai combattimenti e hanno bisogno di aiuto.
A novembre, il governo dello Yemen riconosciuto a livello internazionale e i separatisti sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti hanno firmato un accordo di condivisione del potere per fermare i combattimenti, ma il conflitto continua mentre la parte settentrionale del paese rimane sotto il controllo degli Houti.
Martin Griffiths inviato dello Yemen dell’ONU, ha sostenuto davanti al Consiglio di sicurezza tenutosi a fine novembre che il numero di attacchi aerei della coalizione guidata dai sauditi che combatteva contro i ribelli Houthi era diminuito di quasi l’80% nelle due settimane precedenti.
Nonostante il rallentamento dei combattimenti, il paese devastato dalla guerra deve affrontare altre sfide umanitarie. Lo scorso mese Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha riferito di un nuovo focolaio di febbre dengue nello Yemen, con migliaia di casi e diverse decine di morti. Un focolaio di colera iniziato alla fine del 2016 ha anche ucciso quasi 4.000 persone, metà delle quali bambini.
Disparità di genere
Secondo un rapporto del 2015 della Divisione statistica delle Nazioni Unite, due terzi degli adulti analfabeti del mondo sono donne.
Nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, l’occupazione femminile si attesta intorno al 25% ma le donne dedicano due volte e mezzo più tempo e sforzi degli uomini a lavori di cura non retribuiti e responsabilità familiari.
Queste sfide sono particolarmente acute nei paesi a maggioranza musulmana, dove circa il 65% delle donne è analfabeta, rispetto al 40% degli uomini.
Il PIL prodotto dalle donne nel mondo arabo è solo del 29% circa, contro il 50% in tutti i paesi in via di sviluppo; il tasso di povertà è del 31,6% tra le donne, del 19% per cento tra gli uomini.
Il Global Gender Index 2020 del World Economic Forum rivela che 17 dei 20 paesi che hanno il più ampio divario di genere sono paesi musulmani e membri OIC.
Secondo Maha Akeel, direttore delle informazioni presso l’OIC, “colmare il divario di genere potrebbe aumentare notevolmente il PIL”.
Il FMI, ad esempio, calcola che colmare le disparità di genere nei mercati del lavoro potrebbe aumentare del 12 percento il PIL negli Emirati Arabi Uniti e del 34 percento in Egitto
L’Indonesia, il più popolato paese musulmanio del mondo, è classificato all’85 ° posto su 153 paesi nella vicina Malesia, il divario di genere è ancora maggiore con il Paese al 104 ° posto.
Disparità economica
Mentre alcuni paesi del Medio Oriente godono dei redditi pro capite più alti del mondo, con il Qatar ricco di petrolio e gas in cima alla lista, un altro paese membro dell’OIC, il Niger, si trova tra i tre paesi più poveri del mondo.
Il reddito pro capite del Qatar nel 2017 è stato stimato a $ 128.000, secondo la Banca mondiale. Il reddito pro capite del Niger è stato stimato in $ 990.
In un rapporto del 2018, l’Arab Weekly ha citato il World Inequality Lab affermando che il Medio Oriente è la regione in testa nella disuguaglianza economica.
Mark Habeeb, professore presso la Georgetown University di Washington, DC, ha scritto.“La disuguaglianza di reddito nei paesi del Medio Oriente è più il risultato della presenza elite radicate – molte delle quali provengono da famiglie che hanno accumulato ricchezza prima dell’indipendenza – e una storia di politiche economiche fallite, tra cui sistemi di imposte sul reddito mal gestiti o inesistenti”,
In Libano, ad esempio, il 10% della popolazione dispone del 23,4 % del reddito complesivo; in Egitto, il 19,1% del reddito nazionale è appannaggio dell’ 1% dei più ricchi.
Nessun commento