“Se il prezzo per salvaguardare la legittimità democratica è il mio sangue, allora sono pronto a offrire il mio sangue per la salvezza e la giustizia di questa patria”. Queste le parole di Mohamed Morsi nell’ultimo discorso prima di essere arrestato dai militari golpisti del generale Al Sisi nel 2013.
Mohamed Morsi ha mantenuto fede alla promessa fino alla fine, fino a quando dopo una lunga detenzione in isolamento in cui gli erano negate anche le cure più basilari, il 18 giugno di quest’anno si è accasciato a terra in un’aula di un tribunale dove affrontava l’ennesimo processo farsa, le accuse infamanti fabbricate senza pudore da un regime con le mani sporche di sangue.
Morsi aveva conosciuto le carceri egiziane ben prima del colpo di Stato; incarcerato da Mubarak come intere generazioni di appartenenti alla Fratellanza Musulmana, destino condiviso dai membri delle fomazioni di sinistra che osavano sfidare il potere militare dei Nasser, i Sadat, i Mubarak
Morsi si era trovato alla presidenza dell’Egitto quasi per caso, quando due dei principali candidati alla carica per il partito Libertà e Giustizia erano stati esclusi con dei pretesti dal potere militare, aveva accettato una sfida quasi impossibile: governare democraticamente un paese che non aveva mai conosciuto la democrazia, farlo con la spada di Damocle dell’establishment militare ancora intatto.
Mohamed Morsi faceva parte però di un movimento che in decenni di pedagogia spirituale, culturale e politica ha forgiato l’ossatura indispensabile a sorreggere il cambiamento, una parte importante di popolazione alfabetizzata politicamente nell’idea di un cambiamento sociale dal basso e non violento, nell’idea di un paese libero e sovrano, idea che fu del fondatore Hassan al Banna e della sua opposizione alla dominazione inglese. Anche Hasan Al Banna fu assassinato, morì come Morsi mentre gli venivano negate le cure.
Il suo anno di governo fu caratterizzato dalla fatica di gestire un paese impoverito, con una sistema istituzionale a pezzi e un’economia in fortissima crisi, tutto ciò con l’ostilità del deep state che operava un sabotaggio costante dell’azione governativa. Morsi e il partito della Fratellanza finirono in una trappola ben congegnata quando cercarono di liberarsi dal giogo dei militari attraverso un’irrituale e molto contestata dichiarazione costituzionale che avvenne dopo lo scioglimento del Parlamento legittimo da parte dei militari.
Una grande coalizione di forze reazionarie composta dai militari, potentati dell’ancien regime e i loro sgherri mediatici i salafiti a libro paga di Riyad,la Chiesa copta e il nascente asse Israele- Emirati- Arabia Saudita spinsero al massimo sulla delegittimazione del presidente, i media e gli opinion makers occidentali fecero eco con rare eccezioni.
Le cancellerie europee e gli intellettuali e i giornalisti occidentali fecero moltissima fatica a pronunciare la parola “golpe”, ci vollero la repressione feroce che trasformò l’Egitto in una grande prigione, il ritorno a un regime militare più liberticida dei precedenti, che non ha risparmiato gli oppositori laici, e il disastro economico conclamato per far aprire gli occhi sulla realtà del nuovo Egitto.
Tutto questo non è bastato però a delegittimare Al Sisi come interlocutore politico privilegiato e il silenzio della politica italiana sull’omicidio di Mohamed Morsi fa il paio con la debolezza dell’Italia nel chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni. Nemmeno oggi che l’Egitto di Al Sisi minaccia i nostri interessi in Libia armando la marcia di Haftar verso Tripoli, il nostro Governo ha un sussulto di orgoglio nazionale.
Mohamed Morsi, martire, è l’uomo emblematico di un anno che ha visto l’ulteriore degenerazione della situazione in tutto il Medio Oriente, del divampare di venti di guerra e della contestuale elezione della violenza come principale, se non unico, metodo di conseguimento e conservazione del potere.
Da presidente non fece arrestare nessun oppositore, non fece sparare sulla folla, non represse le manifestazioni, avrebbe potuto chiamare i suoi sostenitori alla resistenza armata, non lo fece.
Questo è forse il lascito più importante della sua presidenza in un contesto regionale, e internazionale, in cui il potere nasce dalla canna del fucile, si alimenta del sangue degli oppositori e si legittima nella violenza.
Mohamed Morsi avrebbe potuto durante la sua dura prigionia cedere ai tentativi di corruzione e alla minacce dei servizi segreti di Al Sisi e legittimare in potere usurpatore, non lo fece.
Mantenne due promesse: non versare il sangue di nessuno, non tradire mai per questo Morsi è l’emblema di una via diversa, di un fuoco che, sotto la cenere, continua a bruciare.
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