Il 3 gennaio ci siamo svegliati con la notizia dell’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani freddato dagli USA mentre era in auto a Baghdad, un po’ come la mafia italiana ha ucciso Falcone e Borsellino. Da allora è stato tutto un susseguirsi di analisi geopolitiche da strapazzo: quasi tutti hanno iniziato a fare previsioni sull’imminente nuova guerra totale, molti hanno tirato dal cilindro la differenza tra musulmani sunniti e musulmani sciiti (ma che centra?), il TG1 ha mandato un servizio dove nell’immagine a video i sunniti erano posizionati in Iran e gli sciiti in Arabia Saudita (licenziateli tutti!).
Insomma, la confusione mediatica ha regnato sovrana e l’unico politico di “rilievo” che si è immediatamente schierato è stato Matteo Salvini, a favore degli USA e di Israele (si, ha tirato in ballo Israele). Poi Di Battista è partito per l’Iran, ma in aereo e non con lo scooter dei tempi d’oro. Il ministro degli esteri Di Maio e il premier Conte? Missing!
Nel frattempo, i funerali in Iran sono durati alcuni giorni durante i quali è stata più volte anticipata una dura vendetta contro gli USA. Più passavano i giorni però e più aumentava la sensazione che la montagna avrebbe partorito un topolino.
L’8 gennaio ci siamo svegliati con la notizia che l’Iran aveva colpito due basi militari statunitensi in Iraq ed i media iraniani hanno parlato di 80 morti americani. In serata è arrivata la risposta (verbale) di Trump che in qualche modo riporta le lancette a prima del 3 gennaio e tutti “amici” come prima. Trump ha precisato anche che il numero di vittime per l’offensiva iraniana è stato pari a zero. Ah, per quel che conta, Di Maio ha condannato l’Iran, nel mentre inseguiva la Turchia sulla questione libica.
Due sono gli elementi inizialmente presi in considerazione praticamente da nessuno, e che comunque sono rimasti circoscritti nelle tesi non maggioritarie: il fatto che questo pseudo-conflitto si è svolto in un paese terzo, cioè l’Iraq, e l’esercitazione militare congiunta tra Cina, Russia, e Iran iniziata il 27 dicembre scorso.
L’Iraq come terreno di scontro, ma le proteste in corso erano altre
Sulle prime sembra essere sfuggito ai più che gli USA avevano ucciso il generale Soleimani in territorio iracheno. Si è detto e ridetto che la cosa era successa a Baghdad ma si è preferito non precisare che Baghdad è una città dell’Iraq non dell’Iran (che vuoi che sia, cambia una sola lettera). Forse un po’ per la vergogna di aver quasi ignorato le proteste in corso a Baghdad dal 1° ottobre che chiedono a gran voce un cambio radicale di sistema, e che sono contro ogni ingerenza (quella iraniana come quella statunitense) e contro il pericolo residuale dell’ISIS.
Tra le ipotesi improbabili circolate in questi giorni c’è stata quella di una missione diplomatica in Iraq del generale Soleimani finalizzata ad una distensione tra Iran e Arabia Saudita. Al contrario di quanto si narra, la tensione tra i due stati non è per una contrapposizione religiosa (sciiti vs sunniti) bensì per questioni politico-petrolifere. Non si capisce comunque perché il paese mediatore di questa missione diplomatica avrebbe dovuto essere l’Iraq, che è in forte difficoltà ed il cui governo (filo iraniano) ha invece bisogno dell’Iran per tenere militarmente a bada le proteste in corso.
Vale la pena ricordare che le proteste non sono da parte della minoranza sunnita in Iraq contro il governo che è di parte sciita, e che sono molti anche gli sciiti iracheni a non sopportare l’eccessiva dipendenza di Baghdad da Teheran. Le proteste infatti hanno avuto una tregua a fine ottobre per rispetto della festività sciita dell’Arbain. Non che agli USA stesse a cuore la società civile irachena o le giovani generazione che sentono di non aver affatto bisogno di un’ennesima guerra in casa, ma di sicuro agli USA non è andato a genio il modo con cui l’Iran è riuscito farsi largo negli spazi creatisi a seguito della destabilizzazione della regione iniziata con l’invasione dell’Iraq del 2003 guidata dagli USA. Tuttavia, l’uccisione del generale Soleimani non dipende (solo) da questo.
Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale
Il 27 dicembre ha preso il via un’esercitazione militare navale congiunta tra Cina, Russia ed Iran, ed è questo il movente principale dell’omicidio del generale Soleimani. Sappiamo tutti che la Cina è una potenza economica in ascesa e che il suo apparente letargo sullo scacchiere mondiale non durerà per sempre, ed è stupido sperare che il suo operato si limiterà ad inondarci ulteriormente di merce a basso costo.
Continuiamo ad ignorare che quando sarà il momento di cambiare gli equilibri creatisi nel ‘900 l’irruzione cinese sarà giocoforza come quella statunitense del secolo scorso quando cioè furono necessarie due Guerre Mondiali per stabilire gli assetti. E chi poteva iniziare a dichiarare preventivamente un’alleanza con la Cina se non chi dalla Guerra Fredda con gli USA ne è uscito ridimensionato (URSS/Russia) e chi con la Rivoluzione Islamica del 1979 ha avviato una sua “piccola” guerra fredda tutt’ora in corso (l’Iran)?
La paventata alleanza inequivocabilmente anti-americana è stata subito presa di mira dall’irruento Trump che ha saggiato la reale tenuta attuale della stessa. Ha preso a pesci in faccia il pesce più piccolo per vedere se gli altri due sarebbero saltati dalla sedia, cosa che non è avvenuta e per adesso possiamo dire che la Terza Guerra Mondiale non è alle porte. Ma sappiamo che ci stiamo preparando per essa.
E la religione?
In Iran la continua campagna anti-Israele è molto forte, nonostante l’Iran sia un paese sciita ed i palestinesi siano in grande maggioranza sunniti. Che però la questione palestinese ha per l’Iran una valenza strumentale geopolitica proprio come per i paesi arabo-sunniti lo si può dedurre proprio dall’alleanza con la Cina.
In Cina infatti è in corso una cruenta persecuzione ai danni della minoranza islamica e l’Iran ha dimostrato di ignorarla proprio come fanno i suddetti paesi arabo-sunniti, di cui l’Iran sciita dovrebbe essere rivale.
Ma se volete possiamo continuare a raccontarci la differenza tra sunniti e sciiti.
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