Il 29 dicembre 2019, tarda notte in Italia: il Monterrey vince il torneo di apertura. Se non fosse per i post dei miei amici messicani su Facebook, probabilmente non me ne sarei accorto. A destare senzazione è la storia di Antonio “El Turco” Mohamed, ex giocatore ed attuale allenatore dei “Rayados”. È una storia triste e bellissima allo stesso tempo. Una di quelle storie che finisci per raccontare agli amici, e che strappa un sorriso accompagnato da uno sguardo triste.
8 dicembre 2004, una serata calda e apparentemente tranquilla a Monterrey, città industriale nel nord del Messico. Stiamo guardando la finale di ritorno del torneo di apertura, il campionato di serie A messicano. Non capisco la logica di giocare due diversi tornei all’anno, con ben 18 squadre, e lo spettacolo sul campo è lontano da quello a cui siamo abituati in Europa. I miei amici sono piuttosto giù di morale: il Monterrey perderà 1-0 in casa e i Pumas di Città del Messico si aggiudicheranno il titolo.
Non avrei mai pensato che dopo tanto tempo avrei scritto di quella sera, di quella partita, e di quello che ho capito essere il calcio in Messico.
Durante il mondiale del 2006 in Germania, Antonio, ex calciatore argentino di origini siriane-libanesi, si sta recando con la moglie e i quattro figli a Berlino per assistere ai quarti di finale della coppa del mondo tra Germania e Argentina. Durante il tragitto viene coinvolto in un grave incidente stradale. Ad aver la peggio è suo figlio Farid, di 9 anni, che morirà dopo 3 giorni di ospedale. Farid è un grande tifoso del Monterrey, la squadra in cui ha giocato il papà, e poco prima di morire riceve una promessa: il Monterrey tornerà ad essere campione del Messico e sarà proprio lui, Antonio, suo papà, a portarlo alla vittoria.
È una promessa audace, esagerata. Mohamed non allena ancora, ha solo 36 anni. Ma quella promessa diventerà realtà 13 anni dopo, ai calci di rigore, allo stadio Azteca di Città del Messico. Dopo il rigore decisivo, tutti i suoi giocatori corrono, ma lui no, rimane in panchina a piangere, con un rosario tra le mani, quello che appoggia sempre sulla sua sedia in ricordo di Farid. È il terzo campionato che vince, ma questa volta con la maglia giusta, quella che aveva promesso al suo piccolo.
Torniamo alla finale del 2004. È ormai notte e dico ai miei amici che mi dispiace per la sconfitta e che è ora di tornare a casa. Li vedo un po’ perplessi, mi chiedono se voglio fermarmi a dormire da loro. Si stupiscono che non sia preoccupato: il Monterrey ha perso e le strade non sono così sicure. Comincio a capire molte cose. All’università non passava giorno senza che qualcuno indossasse la maglia a strisce bianco e blu dei “Rayados” o quella gialla de “Las Tigres”, l’altra squadra di Monterrey. Uomini e donne. Non avevo mai visto la versione femminile di una maglia da calcio, un po’ scollata e quasi senza maniche, a scoprire per intero le braccia e le ascelle.
Il calcio in Messico non è solo una passione, è qualcosa che si vive tutti i giorni. Lo si capisce dagli adesivi sulle auto, nelle bancarelle che vendono dolci, dentro le case vicino all’immagine della Virgen de Guadalupe. Non sei solo tifoso della squadra della tua città, ma sei parte di una comunità più grande. Se hai la fortuna di poter studiare, hai tifato per i colori della tua università e magari tu stesso hai indossato quella maglia. Vedere una partita diventa una festa, e la scusa per una grigliata, che solitamente dura ben oltre i 90 minuti. Il calcio è totalizzante e in una città come Monterrey non è raro che le amicizie vengano scelte a seconda dei colori del cuore.
Ecco che la promessa di un papà a suo figlio morente diventa meno inaspettata. I bambini e i ragazzi vivono e crescono dentro una comunità che condivide la stessa passione e che unisce poveri e ricchi. In un paese tristemente noto per il classismo, puoi vedere gli stessi colori dentro i taxi umili della periferia o nelle ville faraoniche dei quartieri ricchi.
Resta la notizia sorprendente e per una volta positiva. Antonio Mohamed non è solo riuscito a mantenere la parola data a suo figlio, ma anche a dimostrare come passione e determinazione siano ingredienti fondamentali per raggiungere un obbiettivo all’apparenza lontanissimo e che io, quella sera del 2004, consideravo impossibile.
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