Con l’avvio del 2020, siamo alla scadenza del termine entro il quale le Nazioni Unite hanno avvertito che la Striscia di Gaza potrebbe diventare inabitabile.
Le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie hanno stilato numerosi rapporti in cui si prospettava un disastro umanitario in questa enclave densamente popolata e assediata. L’anno scorso, Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi, ha osservato che con il 70% di disoccupazione giovanile, un sistema sanitario collassato e acqua potabile ampiamente contaminata, Gaza era già inadatta a vivere.
L’avvertimento delle Nazioni Unite risale a sette anni fa e voleva sollecitare una svolta, ma per noi palestinesi della striscia di Gaza, la relatà quotidiana è diventata ancora più cupa.
Come risultato diretto del blocco israeliano su Gaza, il territorio è stato isolato dal mondo esterno per più di un decennio. Nonostante Israele affermi di essersi ritirato dall’area nel 2005, è ancora la forza assediante del popolo gazawi.
Il giorno in cui ho lasciato Gaza e sono salito a bordo di un aereo per la prima volta nella mia vita
Israele circonda ancora gran parte della Striscia di Gaza e limita fortemente la possibilità dei palestinesi e dei visitatori stranieri di uscire od entrare nel territorio. È possibile avere un’autorizzazione speciale, ma è raro ottenerla. Israele controlla le merci che entrano o escono dal territorio, dai materiali da costruzione ai materiali sanitari. Tutto ciò sbugiarda la pretesa di Israele di essersi disimpegnato da Gaza.
Il blocco ha gravemente danneggiato la salute mentale dei palestinesi di Gaza. Il territorio è stato a lungo paragonato a una prigione a cielo aperto, dove i residenti sono privati dei loro diritti fondamentali.
I giovani non sono in grado di viaggiare o incontrare persone di diversi paesi e culture. La maggior parte di loro non è mai stata su un aereo, treno o nave. Non hanno mai visto montagne o fiumi, non hanno visitato il resto dei territori palestinesi occupati o hanno avuto l’opportunità di pregare nella moschea di al-Aqsa – uno dei siti più santi per i musulmani – anche se la moschea si trova sulla loro terra, a soli 100 chilometri dalla recinzione di Gaza.
La maggior parte dei giovani di Gaza non riesce a trovare lavoro per sostenere i propri bisogni di base, e sono costretti ad accettare giornate di 15 ore per pochi dollari, la disoccupazione impedisce loro di poter avere una casa, sposarsi e avere stabilità. Tutto questo ha aumentato il loro disagio psicologico e si registrano alcuni casi di suicidio.
Il senso di disperazione che attanaglia i giovani di Gaza oggi è una diretta conseguenza della punizione collettiva che Israele attua contro i palestinesi.
Nel 1948, circa 750.000 palestinesi furono costretti all’esilio; oggi, circa due terzi degli abitanti della Striscia di Gaza sono rifugiati. Israele ha massacrato la popolazione palestinese e occupato le loro terre, e l’assedio ha chiuso le porte del loro futuro.
Le condizioni con cui vivono quotidianamente i palestinesi a Gaza – comprese le privazioni di cibo, di cure e la disoccupazione – hanno portato a un generale senso di disperazione. Israele vuole così: fa parte del piano strategico decennale dello Stato sionista per eliminare i palestinesi. All’inizio di quest’anno, una fonte governativa aveva ammesso che Israele stava spingendo i palestinesi a lasciare definitivamente Gaza e che il governo era persino disposto a “organizzare i trasporti” per aiutarli a raggiungere altri Paesi.
Pressione internazionale
Il problema fondamentale che affrontano i palestinesi a Gaza è di natura politica. Per affrontare le conseguenze di quanto messo in atto in Israele in termini di deportazione, occupazione e violazione del diritto internazionale abbiamo bisogno di maggiori pressioni internazionali su Israele per porre fine all’assedio e dare ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione. L’avvertimento delle Nazioni Unite su cosa sarebbe successo nel 2020 non è stato purtroppo sufficiente.
Gaza attende con impazienza un reale intervento da parte della comunità internazionale, che potrebbe aprire una finestra di speranza e spezzare l’isolamento del territorio.
Sapendo che abbiamo raggiunto questa scadenza del 2020, un momento in cui la comunità internazionale deve riconoscere le terribili condizioni in cui viviamo, Gaza ha bisogno di un programma di emergenza per aprire una rotta umanitaria che la colleghi al mondo esterno, creando posti di lavoro e fornendo opportunità economiche che potrebbero finalmente salvare la nostra gioventù dalla disperazione.
Articolo pubblicato su Middle East Eye
L’autore Abu Artema è un giornalista palestinese e attivista per la pace. Nato a Rafah, nel 1984, è un rifugiato del villaggio di Al Ramla. È autore del libro “Caos organizzato”.
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