La fine dei cristiani in Palestina: vittime dell’occupazione israeliana

I Pellegrini giungono numerosi a Betlemme per celebrare il Natale, ma i cristiani palestinesi temono per la sopravvivenza della loro comunità nella terra in cui è nato Gesù.

Una settimana prima di Natale. Mi trovo nella piazza della Mangiatoia e osservo i pellegrini scendere dagli autobus e dirigersi verso la Chiesa della Natività, costruita per prima nel quarto secolo, nel punto dove, secondo la tradizione Cristiana, venne alla luce il bambino Gesù.

Dentro alla Chiesa mi unisco a un gruppo di pellegrini spagnoli. Ci fermiamo a cantare canti natalizi vicino alla culla di Gesù. Non c’è dubbio sulla sincerità e sulla devozione di coloro che compiono il pellegrinaggio a Betlemme ogni anno. Per me, cristiano anglicano, è un’esperienza profondamente commovente.

Ma quanto sanno la maggior parte di questi pellegrini della piccola e tribolata comunità cristiana palestinese che sopravvive a quasi 2.000 anni dalla morte di Gesù?

Situata all’interno della West-Bank occupata, l’odierna Betlemme è un posto difficile, con due campi profughi all’interno dei limiti urbani e con insediamenti israeliani in costante crescita nel circondario.

Il muro di separazione corre come una cicatrice attraverso la città. Ogni pellegrino deve attraversarlo per raggiungere la piazza della Mangiatoia. Ne sono disturbati? Ci fanno caso?

Qui il Cristianesimo è sopravvissuto alla persecuzione dei suoi primi convertiti sotto il dominio romano. È fiorito durante l’impero Bizantino, ha sopportato i primi califfati islamici e ha goduto di una rinascita sotto l’impero Ottomano prima che il territorio dell’attuale Palestina passasse sotto controllo britannico nel 1917.

Tuttavia ogni cristiano palestinese con il quale ho parlato dubita che ci sarà ancora nel prossimo futuro una significativa presenza cristiana nella terra dove il fondatore del cristianesimo nacque, predicò il suo vangelo e morì.

Con poche eccezioni, mi hanno detto di essere l’ultima generazione di cristiani palestinesi.

Un piccolo numero di loro potrebbe essere necessario per occuparsi dei luoghi santi, in special modo della Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, che afferma di essere edificata sia sul luogo dove Gesù fu crocifisso che sulla tomba dalla quale risorse, così come della Chiesa della Natività.

Pellegrini cristiani pregano nella Chiesa della Natività, il luogo dove I cristiani credono che Gesù sia nato, nella città sacra di Betlemme nella West Bank.

Pellegrini cristiani pregano nella Chiesa della Natività, il luogo dove I cristiani credono che Gesù sia nato, nella città sacra di Betlemme nella West Bank. (AFP)

Questi luoghi santi attraggono milioni di pellegrini, che tra l’altro producono una fortuna per gli ordini religiosi che li controllano. Ma questi ordini hanno basi estere e sono spesso gestiti da chierici stranieri, alcuni dei quali non parlano arabo.

I cristiani palestinesi distinguono fra quelle che chiamano “pietre morte”, i templi e le chiese che hanno lasciato il segno di quasi 2.000 anni di ininterrotto culto cristiano sul paesaggio, e le “pietre vive”, la gente che continua a praticare la fede Cristiana nel luogo di nascita della religione. Qui i fatti si fanno crudi.

Il loro numero sta diminuendo e oggi si stima che ci siano circa 40.000 cristiani nella West Bank e solo 11.000 a Gerusalemme, secondo I dati pubblicati dall’ufficio stampa del patriarcato latino – appena l’uno per cento della popolazione totale dei territori palestinesi occupati della West Bank, di Gaza e di Gerusalemme Est.

Un’indagine sui cristiani palestinesi che vivono in Israele e nei territori palestinesi afferma che la percentuale di popolazione identificabile come cristiana è scesa dal 7,4 per cento nel 1947, prima della creazione dello stato di Israele, a solo il 2 percento nel 2007.

Secondo le informazioni pubblicate questa settimana dall’Ufficio Centrale di Statistica Israeliano, ci sono 177.000 cristiani che vivono in Israele, circa il 2 percento della popolazione totale del paese.

Per capire questa minaccia mortale, ho visitato Gaza, Gerusalemme, la West Bank e lo stesso Israele per due volte, la prima volta l’estate scorsa e la seconda volta nel periodo prenatalizio.

A Betlemme invece di pregare nella Chiesa della Natività, mi sono unito a 200 fedeli nella luterana Christmas Church.

I luterani con il coro locale hanno intonato un meraviglioso canto. In un servizio celebrato in arabo, il pastore, Munther Isaac, ha dedicato il suo sermone alla condanna del sospetto omicidio di una donna vicino a Betlemme commesso dai suoi stessi famigliari, dicendo alla congregazione: “Dire alle donne che il loro posto è la casa è il primo passo verso la violenza contro di loro.”

Più tardi mi ha detto che “dietro le luci e le celebrazioni, sentiamo Betlemme come una grande prigione, circondata da insediamenti e divisa da un muro.”

Ha detto che I visitatori vengono solo per “visitare vecchie chiese e sistemarsi in hotel a buon mercato”. Ha chiesto: “a loro importa davvero dei palestinesi?”

“Per gran parte dei turisti, è come se la storia si fosse fermata al 70 dopo Cristo. Visitano la terra santa dove Gesù ha compiuto i suoi miracoli, ma ignorano la realtà.

“Sinceramente sento il peso della storia; siamo l’ultima generazione cristiana a stare in questa terra. Guardo alla mia congregazione. Siamo 160 membri. Molti dei quali hanno 50 anni e oltre.

“Abbiamo esaminato I registri della Chiesa. Abbiamo scoperto che vi sono migliaia di membri che vivono fuori dalla Palestina.”

Molestie ai coniugi

La maggior parte lascia per sfuggire alla discriminazione da parte di Israele che è il destino comune di tutti I palestinesi, cristiani come musulmani.

Altri emigrano per trovare lavori non disponibili nella West Bank. E quindi ci sono le pressioni più insidiose.

Elaine Zoughbi, una corista, mi ha raccontato una tipica storia di molestia da parte delle autorità israeliane. Elaine, cittadina americana, affronta ostacoli burocratici e legali che hanno reso progressivamente sempre più difficile vivere con suo marito palestinese e con i loro quattro figli.

Il problema ebbe inizio quando Elaine arrivò all’aeroporto Ben Gurion dagli Stati Uniti per partecipare al matrimonio di suo figlio. Nonostante avesse fatto quell viaggio innumerevoli volte, le rifiutarono l’entrata in Israele, le sequestrarono il passaporto, e restò in detenzione per 12 ore.

In fine, quasi a mezzanotte, è stata messa su un aereo per lasciare Israele. Chiese una spiegazione ma si sentì dire che era “sposata a un palestinese”.

É stata sposata con suo marito Zoughbi Zoughbi, un rispettato leader cristiano, e ha vissuto con lui a Betlemme per quasi 30 anni.

Dopo una battaglia burocratica da incubo, ottenne il permesso da Israele di entrare in Palestina attraverso il ponte Allenby – un confine terrestre tra Giordania e Cisgiordania, e l’unico mezzo per i palestinesi della Cisgiordania di andare all’estero.

Il nuovo visto di Elaine le concedeva un soggiorno di tre mesi e stabilì che doveva rimanere confinata nei territori controllati dai palestinesi in Cisgiordania.

Ha anche dovuto pagare 70.000 shekel ($ 20.000) in garanzia che si attenesse alle restrizioni del visto. Quelli erano soldi che la sua famiglia aveva dovuto prendere in prestito dagli amici.

Le fu detto che queste dure misure erano dovute al “sospetto di attività di insediamento illegale nell’area”.

Ho chiesto cosa significasse. Lei rispose che non ne aveva idea: “Come puoi essere in attività di insediamento illegale quando stai semplicemente cercando di vivere con il tuo coniuge nella terra ancestrale della sua famiglia?”

Ha sottolineato: “Sin dal nostro matrimonio nel 1990, abbiamo chiesto alle autorità israeliane di concedere lo status di residenza permanente affinché io vivessi con mio marito a Betlemme.

Le nostre domande sono state continuamente respinte e invece, negli ultimi 30 anni, ho dovuto dipendere dalla generosità delle autorità israeliane nell’estendere i miei visti turistici per vivere con mio marito. Ora quella generosità sembra essere finita. “

Ha rivelato che altri membri della famiglia sono stati presi di mira allo stesso modo. Anche la nipote di suo marito è sposata con un cittadino americano e anche lui è stato deportato all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion.

Un altro cugino ha sposato una donna olandese a cui è stato rifiutato lo status di residenza permanente. La famiglia ora vive all’estero.

Elaine ha dichiarato: “Conosco molti coniugi internazionali che si trovano nella stessa situazione. Succede se un coniuge è palestinese e l’altro coniuge proviene dalla Germania, dalla Grecia o dagli Stati Uniti e altrove.

Se sei un palestinese, devi fare una scelta tra vivere la tua vita qui con un coniuge” part-time “e vivere tutto l’anno in esilio con coniuge e figli

Ha aggiunto che “anche se Gerusalemme è a meno di cinque miglia di distanza, non mi è permesso visitare la famiglia lì o rischiamo di perdere i 70.000 shekel di garanzie bancarie alle autorità israeliane”.

Ancora e ancora mi sono imbattuto in cristiani palestinesi che affrontano questa stessa difficoltà. La moglie di un pastore palestinese dipende da un visto turistico da 19 anni. Recentemente le è stato detto che il visto sarebbe durato solo un mese.

Un cristiano, che mi ha chiesto di non nominarlo per paura di offendere le autorità, ha dovuto aspettare più di un anno affinché sua moglie, nata all’estero, fosse autorizzata a recarsi a Gerusalemme.

“Questa continua molestia fa male all’anima”, ha spiegato Elaine Zoughbi.

Lo stress è emotivo e fisico. Quelli di noi che possono farlo spesso scelgono di andarsene “.

Ha aggiunto: “Considero questo un tipo di trasferimento come forzato. Molti di noi stanno di fronte a un futuro sconosciuto, ignorando se ci sarà permesso di vivere nelle nostre case nel paese del coniuge “.

Middle East Eye ha chiesto alle autorità israeliane di commentare le questioni sollevate da Zoughbi, ma hanno detto che lo avrebbero fatto solo se MEE avesse fornito i numeri dei documenti di identità della coppia.

Cristianesimo a Gaza

Solo 15 anni fa c’erano 4.000 cristiani a Gaza. C’è stata una diminuzione spaventosa e oggi sono a malapena 1.000, come ho scoperto quando a luglio mi sono recato, per portare attrezzature mediche, all’ospedale anglicano Ahli Arab.

Lasciando il passaggio di Erez da Israele a Gaza, sono stato accolto dal sacerdote cattolico padre Mario Da Silva. Mi ha accompagnato nella sua chiesa. La Chiesa è dedicata alla Sacra Famiglia, in onore di Giuseppe e Maria che, secondo la tradizione cristiana, attraversarono Gaza come rifugiati con Gesù bambino mentre fuggivano dal massacro degli Innocenti di Erode.

Mentre guidavamo, padre Mario mi disse che era arrivato a Gaza da Roma solo due giorni dopo la guerra del 2012.

“È stato un grande shock per me”, afferma. “Venivo da Roma, una città molto bella. Pensavo che tutto era stato distrutto, ma poco alla volta la situazione sarebbe migliorata. Adesso è peggio”

Accanto alla Chiesa della Sacra Famiglia c’è un santuario gestito dalle suore di Madre Teresa. Al suo interno ho visto la gioia, l’amore, e la devozione con cui si prendevano cura dei bambini disabili del luogo.

Siamo entrati nell’ufficio di padre Mario. “Abbiamo fra 60 e 70 persone a nostro servizio,” ha detto. “nel 2003 c’erano a Gaza 4.300 cristiani. Ora ce ne sono circa 1.000. Quando sono arrivato nel 2012 c’erano 170 cristiani nei ruoli elettorali.”

Una messa a Gaza. La popolazione Cristiana a Gaza si è ridotta negli ultimi anni a poche centinaia

Si è alzato dal suo posto e si è avvicinato alla scrivania e ha contato. “Ora sono 117.”

Sebbene la popolazione Cristiana costituisca una piccola porzione della popolazione di Gaza, fornisce un importante contributo in termini di sanità, assistenza e istruzione.

Cinque scuole cristiane danno istruzione a 3.000 bambini, di cui solo 180 non sono musulmani.

Oltre all’ Anglican Ahli Arab hospital, vi sono cliniche che offrono assistenza medica a decine di migliaia di abitanti di Gaza. L’ospedale oftalmico di Gerusalemme ha recentemente aperto una succursale a Gaza City. Esiste un’associazione cristiana di 500 giovani la Young Man’s Christian Association (YMCA) che offre attività sportive, culturali e sociali.

Durante l’attacco militare israeliano su Gaza del 2014, Operazione Bordo Protettivo, le chiese e la YMCA aprirono le loro porte per ospitare gli sfollati e offrire razioni di emergenza e aiuto. Dopo i combattimenti, le scuole cristiane riaprirono i battenti nel giro di tre settimane.

Non importa se musulmano o cristiano, la vita a Gaza è tremendamente dura.

Quest’anno I cristiani hanno subito un altro duro colpo quando le autorità israeliane hanno annunciato il 12 dicembre che non sarebbe stato loro permesso di visitare Betlemme e Gerusalemme per Natale. Il divieto è stato ritirato il 22 dicembre ma orami era troppo tardi per la maggioranza delle persone per organizzare il viaggio.

Cristianesimo in Israele

Ci sono molti più cristiani palestinesi all’interno di Israele che nella West Bank, Gaza e Gerusalemme est messe insieme, e quasi tutti sono cittadini israeliani. Penso che il Cristianesimo resisterà più a lungo in Israele che nei territori palestinesi occupati.

I cristiani palestinesi in Israele ricevono istruzione, assistenza e servizi medici che non sono disponibili per i palestinesi in Cisgiordania o a Gaza.

Quasi tutta la popolazione cristiana di Israele appartiene a famiglie palestinesi che abitavano in terre che sono ora Israele, e che durante quella che I palestinesi chiamano Nabka, o catastrofe, in centinaia di migliaia fuggirono o furono espulsi dalle loro terre da gruppi paramilitari ebrei durante il conflitto che seguì alla spartizione della Palestina storica e che portò alla creazione di Israele.

Da allora, per disposizione militare, molte chiese in Israele sono state chiuse. E, come tutti i cittadini palestinesi di Israele, i cristiani sono discriminati e fanno fatica a trovar lavoro. La nuova Legge Base Nazionale dice esplicitamente che gli arabi palestinesi non sono cittadini uguali nel loro stesso paese.

Vi sono due cristiani membri del Knesset: Aida Touma-Suleiman and Mtanes Shehadeh.

La fede dei cristiani palestinesi, che vivono in Israele, rende più complesse questioni di identità, sia autodefinite che imposte da altri, già di per sé piuttosto delicate.

Un leader cristiano che ho incontrato, ha citato Gesù: “dovete essere prudenti come serpenti e dolci come colombe.”

Ha aggiunto: “Siamo la minoranza di una minoranza. Ogni volta devo sforzarmi di dimostrare che non sono un terrorista.”

Ha continuato: “Sono un cittadino leale. Che non significa essere un collaborazionista. La nostra Bibbia è amore. Predico amore, ma anche giustizia. Alla gente piace ascoltare funzioni pattriotiche nella West Bank. Stiamo diventando meno nazionalisti.”

Il prete mi ha detto di subire “pressioni israeliane per discriminare cristiani e musulmani.” Dicono “sei un cristiano, vieni ti daremo un appartamento in un’area israelita”.

Una fotografia della città della West Bank di Beit Jala, un sobborgo di Betlemme, mostra la strada israeliana e il controverso muro di separazione fra la città della West Bank di Betlemme e Gerusalemme.

Il governo Netanyahu tenta di corteggiare i cristiani aramaici e maroniti.

Nel 2014, Israele ha ufficialmente riconosciuto la minoranza etnica degli aramei, differenziandoli dagli arabi cristiani, dando loro accesso sia all’istruzione ebraica che a quella araba. Molti hanno scelto di prestare servizio nelle forze armate israeliane.

Sono stato a Nazareth, città natale di Gesù, dove ho incontrato il vescovo emerito di Gerusalemme, Riah Abu El-Assal.

Mi ha detto che anche i suoi fratelli e le sue sorelle erano emigrati. Anch’egli dice che “potremmo essere l’ultima generazione di cristiani palestinesi”.

Il vescovo Riah mi ha portato sul monte delle beatitudini dove si dice che Gesù abbia predicato il Sermone della Montagna. Lì mi ha raccontato una vicenda famigliare: “la maggior parte della mia famiglia se ne è andata in Canada e in America. Mi hanno pregato di raggiungerli, ma non lascerò la terra del Santissimo.”

Mentre stavamo osservando il Mar di Galilea, mi disse che il livello dell’acqua stava diminuendo anche perché gli israeliani ne incanalano una parte verso il deserto del Negev.

Ha detto: Penso che se tutti i cristiani emigrassero dalla terra del Santissimo, sarebbe semplice per Israele sbarazzarsi dei restanti. Farebbero dello scontro una guerra di religione fra Islam e Giudaismo, e porterebbero i paesi cristiani al loro fianco

“Senza Cristianesimo, il mosaico della Terra Santa cesserebbe di essere un mosaico.”

Una suora ortodossa prega nella Chiesa della Natività, il luogo dove I cristiani credono che Gesù sia nato, nella West Bank, la biblica Betlemme

Numeri in calo

Perché i cristiani palestinesi emigrano in massa e tanto rapidamente? Nella West Bank, Gaza e Gerusalemme subiscono esattamente le stesse pressioni, le stesse molestie e le stesse discriminazioni di altri palestinesi.

Hanno spesso famiglie meno numerose. Per i cristiani può essere più facile che per i musulmani lasciare la Palestina. Sono meglio accolti dei musulmani nell’occidente islamofobo. Molti di loro parlano un buon inglese e hanno un retroterra più da classe media. Una volta partiti, raramente ritornano.

Quelli che non partono mi hanno detto di sentirsi traditi dagli altri cristiani. Salim Munayer è il direttore e il fondatore di Musalaha, un organismo che opera per la riconciliazione fra israeliani e cristiani palestinesi.

Quando l’ho incontrato nel suo ufficio di Gerusalemme, mi ha detto: “i giovani cristiani palestinesi mi dicono che in quanto cristiani palestinesi non sono considerati parte della famiglia e ci si interessa di loro solo a parole. Non si sentono considerati come facenti parte del mondo cristiano. Abbiamo molte delegazioni di chiese che vengono in visita a questa terra con propositi di aiuto, ma poi non fanno nulla.”

 “Per esempio, l’amministrazione Trump ha tagliato I fondi per gli ospedali in Gerusalemme Est. Non si sentono le chiese statunitensi urlare e strapparsi le tuniche per questo fatto. C’è silenzio. Paura di far qualcosa per il popolo palestinese.”

Molti cristiani palestinesi mi hanno riferito di sentirsi minacciati dai movimenti cristiano-sionisti che ricevono il benvenuto dal governo israeliano.

Munther Isaac mi ha parlato “dell’ironia per cui coloro che si preoccupano circa il futuro del Cristianesimo in Medio Oriente, preoccupazione che si esprime nelle conferenze a Washington, stanno in realtà rendendo possibile un’occupazione, che è la ragione per la quale i cristiani stanno perdendo la terra.”

Gli alleati evangelici di Israele

Per molti sionisti evangelici – incluso potenti e molto popolari predicatori americani come John Hagee e Robert Jeffress- il futuro del Cristianesimo dipende dal ritorno del popolo ebraico in Israele che porterà alla seconda venuta di Cristo, spesso definita come la Fine dei Tempi.

Mimi Kirk, del think tank statunitense Al-Shabaka, un Network per la politica palestinese, scrive che, come conseguenza di questa convinzione, “l’occupazione israeliana e l’oppressione dei palestinesi- incluso dei cristiani- è, o ignorata o percepita come necessaria allo scopo finale.

“In quest’ottica, I sionisti cristiani considerano l’espansione israeliana nella West Bank per mezzo di insediamenti illegali uno sviluppo positivo e appoggiano perfino l’espansionismo israeliano sulla riva orientale del Giordano.”

Molte persone con cui ho parlato mi hanno detto che I cristiani palestinesi che parlano apertamente contro l’occupazione sono puniti.

Mi dicevano che questo si fa con mezzi che comprendono la negazione di permessi di viaggio, che impediscono le visite a luoghi santi a Gerusalemme e Betlemme. Certi pastori che collaborano con Israele possono rapidamente trovarsi ricompensati con auto diplomatiche e altri segni di apprezzamento ufficiale.

Alcuni evangelici raccontano un’altra storia. Dicono che i cristiani stanno emigrando perché minacciati proprio dall’Islam. L’Ambasciata Cristiana Internazionale a Gerusalemme, per esempio, dice che la persecuzione musulmana è causa dell’emigrazione cristiana di massa. Quando ho chiesto di incontrare questo gruppo evangelico nel loro ufficio vicino alla porta di Jaffa a Gerusalemme, non sono stato ricevuto.

Vero è che momenti di tensione fra le comunità ci sono stati. Ma ogni cristiano palestinese con cui ho parlato ha sottolineato che cristiani e musulmani condividono una comune identità palestinese. E quando ho attraversato la West Bank ho trovato commoventi esempi di due comunità che combattono la stessa battaglia e che lavorano insieme.

Fedeli accendono candele nella Chiesa Greco-ortodossa di Santa Barbara nel villaggio di Aboud, nella West Bank occupata dagli israeliani.

Segni di speranza

L’antico villaggio di Aboud si trova a 30 chilometri al nord di Gerusalemme. È un posto senza tempo, con alberi di fico, vecchie case di pietra, chiese in rovina e un senso di permanente tranquillità. Si dice che Gesù passò da Aboud nel suo viaggio dalla Galilea a Gerusalemme. Si dice anche che predicò e attrasse alcuni fra i suoi primi seguaci in questo luogo. La scorsa settimana su invito del sacerdote greco-ortodosso, padre Emanuel, mi sono unito a centinaia di abitanti del villaggio per accendere le luci dell’albero di Natale.

Le campane suonavano’: come i palestinesi celebravano il Natale prima della vita sotto occupazione.

Un coro locale cantava canti natalizi e la Chiesa cattolica si esibiva in danze durante celebrazione religiosa solenne. Le festività natalizie ad Aboud iniziano tradizionalmente il 16 dicembre – data del martirio di santa Barbara, patrona del villaggio. I suoi abitanti mi hanno raccontato che santa Barbara è stata una delle prime convertite cristiane. Era la figlia di un ricco pagano, e di lei si racconta che si innamorò di un cristiano convertito. Quando in seguito lo disse al padre, questi si infuriò e cercò di ucciderla, ma santa Barbara si rifugiò in una caverna in una collina che sovrastava la città. Lì si nascose finché un pastore rivelò dove si trovava e fu uccisa. Le celebrazioni iniziavano nella chiesa del villaggio greco-ortodosso, che risale al tempo dei bizantini, una delle chiese più antiche ancora in funzione nel mondo. Mi sono unito ai fedeli che pregavano la santa in una cerimonia presieduta da un arcivescovo della chiesa greco-ortodossa, Atallah Hanna.

Quando le preghiere sono terminate, siamo andati in processione attraverso il villaggio e siamo saliti sulla collina dove si crede che santa Barbara abbia ricevuto il martirio.

A condurre il cammino era un gruppo di scout della chiesa cattolica che suonavano la cornamusa e battevano i tamburi. Alcuni musulmani si sono uniti alla processione. Quando siamo arrivati alla piccola grotta dove si dice che la santa sia morta, vi siamo entrati a piccoli gruppi. Quando è arrivato il mio turno, sono entrato, ho acceso una candela, e ho pregato santa Barbara per la pace. È stato un momento sacro. Il sole stava calando quando sono uscito ma c’era ancora una splendida vista sulle dolci colline verso Tel Aviv ed il mare.

Un fedele cristiano bacia la stella d’argento con 14 raggi che si crede segni il punto esatto della nascita di Cristo, nella grotta nella Chiesa della Natività a Betlemme.

Cristiani e Musulmani

Gran parte di Aboud rimane all’interno dell’area C della West Bank, che si trova sotto il diretto governo militare israeliano.

La terra è stata confiscata agli abitanti del villaggio per far posto al vicino insediamento di Beit Aryeh-Ofarim. Diciasette anni fa I soldati israeliani hanno fatto saltare con la dinamite il tempio sulla collina, ma poi è stato ricostruito

Un negoziante cristiano, Rida, mi ha riferito che i 2.500 abitanti del villaggio si dividono grosso modo in pari percentuale fra cristiani e musulmani, e ha aggiunto che tutti vivono “come fratelli”.

Ha detto ancora: Nelle nostre festività vengono a farci gli auguri, e nelle loro feste siamo noi che ci congratuliamo con loro. Siamo tutti esseri umani. 

Un mercante musulmano di una famiglia vicina, Maiser, in piedi vicino a lui ha affermato: “Posso confermare che è vero. Viviamo come fratelli.”

Dopo la preghiera a santa Barbara, ho seguito la processione al ritorno giù per la collina cantando fino al municipio, fra danze e discorsi. Un insegnante della scuola locale mi ha fatto da guida e da interprete.

Mi ha detto: “Siamo un solo popolo che condivide la stessa situazione e la stessa sofferenza.”

Il coro cantava canti di Natale, mentre nella chiesa cattolica gente con le Keffyah sul capo si esibiva in danze. Poi hanno cantato l’inno nazionale palestinese.

In fine l’arcivescovo Hanna ha tenuto un vibrante sermone nel quale ci ha detto che santa Barbara è morta per “dirci di vivere la nostra fede ed essere onesti con il prossimo”.

Quindi ha annunciato che saremmo andati ad accendere l’albero di Natale “come una sola famiglia palestinese, cristiani e musulmani. Il messaggio del Natale per noi è quello della giustizia e della pace, e che non può esserci pace senza giustizia.”

Siamo usciti in strada. L’albero di Natale è stato acceso, e sono seguiti altri canti e fuochi d’artificio.

In molte parti del mondo il Natale è diventato una festa consumistica piuttosto che una festa di fede. Ma ad Aboud, i festeggiamenti sono rimasti radicati saldamente nella fede e nella preghiera.

I cristiani credono che Gesù sia venuto nel mondo in aiuto ai poveri, ai deboli e a coloro che soffrono a causa dell’ingiustizia, e per i cristiani palestinesi questo è il messaggio che ancora risuona.

Quando ho lasciato Aboud, ho capito di aver ricevuto un grandissimo privilegio per aver preso parte a qualcosa che rimarrà in me come preziosa memoria per il resto della mia vita. Avvenimenti come questo mostrano che la Cristianità Palestinese illumina con una luce che non dovrà mai essere spenta.

 

Articolo di Peter Oborne pubblicato su Middle East Eye 

Traduzione a cura di Carlo Delnevo 

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