Odiato da chi lo amava, incompreso da chi lo ha accolto sin dal primo momento con diffidenza, l’allenatore della Juventus è una delle poche tracce d’umanità e quindi di nobiltà nell’artificio del mondo del calcio. Con lo sguardo più malinconico del solito, la battuta frenata e la volgarità appena accennata, abbandonata la tuta da maestro di provincia, si è trovato ad indossare la giacca da amministratore delegato, alla guida di una multinazionale di giocatori.
Immaginatevi un uomo con un perenne mozzicone tra le labbra e uno spiccato sarcasmo al cospetto di un giocatore, che è un’azienda, e come tutte le aziende che si rispettino, è diventato un asettico e impersonale acronimo, buono per vendersi meglio nel mondo del marketing.
Dopo l’amara sconfitta a Napoli, si è discusso molto di una sua dichiarazione riassumibile in un semplice concetto: “se devo perdere, meglio farlo a Napoli.” Poche parole sincere uscite in uno stato d’animo sospeso tra l’amarezza di una sconfitta e lo spaesamento provato nel tornare da straniero in una terra amata. Parole fuori luogo di fronte alla retorica della stampa sportiva, che è l’emblema della piattezza del linguaggio, che non accetta dichiarazioni contrarie al senso comune. Soprattutto parole che trascurano la logica della vittoria, connaturata alla storia e all’essenza della Juventus.
La vittoria è vuota, è un terreno nudo su cui non può crescere alcun simbolo. Non c’è posto per l’attesa, l’odio, la speranza, l’idolatria, lo sconforto, la rivalsa o l’immaginazione. La vittoria non può che rimandare a sé stessa e nel mezzo al massimo può alimentarsi di insofferenza, indifferenza o capriccio. Tratti tipici dei cosiddetti “figli di papà”, dei viziati. È proprio questo il terreno su cui Sarri si è trasferito, ignorando che i giocatori lì non sono degli allievi o dei figli da educare, ma piccoli soldati, automi, bisognosi soltanto di ordine e motivazione e un po’ di disciplina, caratteristiche proprie a tutti i precedenti allenatori, di lì transitati, vincenti e già caduti nell’oblio.
Immaginarsi questi piccoli soldati di fronte a un uomo che persegue un modello, un ideale, l’utopia del gioco perfetto. E come tutti gli idealisti, il suo perseguire è maniacale, scrupoloso del dettaglio, rigido, ma allo stesso tempo fragile, proprio perché umano. Come umana è stata la sua parabola, a cominciare dalla scelta di rinunciare a un solido posto in banca, per dedicarsi interamente alla sua passione, il calcio.
Ha iniziato allora a percorrere i campi della provincia italiana fino alla serie A, dove dalla salvezza è passato a giocarsi lo scudetto. Una breve parentesi, grigia e vincente, in Inghilterra, prima di arrivare alla Juve. Molti soprattutto tra i suoi vecchi tifosi si sono chiesti, perché? Mosso dai soldi? Certo…ma anche dall’ambizione, tratto umano ineludibile e forse anche dal sogno di cucire quel suo ideale di gioco intorno ai piedi dei migliori giocatori del campionato italiano, nella speranza di raggiungere la perfezione. Ma già nel suo sguardo di ora sembra di poter leggere la consapevolezza che in ogni caso quell’ideale sarà impossibile da raggiungere.
E forse inizia a sentirsi di nuovo tra le mura di una banca, nel palazzo dove non si conosce altro che accrescimento o vittoria, altrimenti non resta che il suo complementare opposto, il fallimento. È proprio questo il pendolo su cui oscillano le sorti della sua stagione calcistica, da una parte una vittoria come semplice accumulo di capitale, rapidamente soggetta ad oblio e indifferenza, o fallimento. E dopo cosa fare?
Non resterà che riaccendere l’eterna sigaretta provinciale nei panni del maestro di periferia, capace, come pochi nello sport di oggi, di intercettare la speranza e il sentimentalismo dei vinti.
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