Uno studio condotto dall’Armed Forces Health Surveillance Branch, (l’istituto epidemiologico centrale delle Forze Armate statunitensi) pubblicato su Pub Med stabilisce una relazione tra vaccinazione anti-influenzale e probabilità di polmonite da Coronavirus.
Il 10 Gennaio 2018, in tempi non sospetti, sul corriere della sera compariva il seguente titolo: “Milano, terapie intensive al collasso per l’influenza: già 48 malati gravi molte operazioni rinviate”. Chiunque orbita nel mondo delle terapie intensive sa quanto siano preziosi i posti letto in simili reparti e come di quanto in quanto durante l’anno ci siano pazienti che stazionino, ad esempio, presso i pronto soccorso o nelle sale operatorie della chirurgia d’urgenza per ore e a volte per giorni, in attesa che si liberi un posto, a detrimento della loro prognosi.
I posti letto dovrebbero essere proporzionati al numero di letti in ciascun nosocomio secondo determinate proporzioni, ma in Italia, specie al Sud, ne siamo ben al di sotto, possiamo dire quindi che il sistema delle terapie intensive è sempre a pelo d’acqua, basta poco per far traboccare il vaso, anzi esso di quanto in quanto trabocca regolarmente.
L’occasione per alcune riflessioni sulla moderna pratica medica ospedaliera
Tenendo conto di questa premessa, insieme al fatto oramai acclarato che i dati di mortalità dell’infezione da COVID19 diffusi sono più che discutibili, per non dire inconsistenti, in ragione dell’intrinseco errore concettuale di non conoscere l’incidenza, cioè quanto sia in realtà la diffusione del virus nella popolazione totale, credo che sia più facile per tutti riportare la situazione che stiamo vivendo alle sue reali proporzioni. Cionondimeno questa potrà essere l’occasione per alcune riflessioni sulla moderna pratica medica ospedaliera e non solo.
Chi ha fatto il vaccino per l’influenza ha maggiore probabilità di ammalarsi di polmonite da coronavirus
La medicina moderna ci sta mostrando i suoi limiti. Essa corre letteralmente dietro ad un virus, contro il quale non ha armi di sorta, e dimentica come al solito l’uomo. Non c’è nessuna capacità di curare l’uomo, nella sua interezza, ma solo parti di esso: il sistema immunitario piuttosto che il fegato o i polmoni, come se si potesse fare l’uomo a pezzi, come se non ci fosse una profonda imprescindibile interconnessione tra tutte le parti di esso. Ci sono una quantità di domande a cui non abbiamo risposta. Perché ci ammaliamo? Perché il virus ci attacca? Chi attacca? Perché ora? Perché ad alcuni fa danni ad altri no? Come si può fare prevenzione? Chi ha fatto il vaccino per l’influenza ha maggiore probabilità di ammalarsi di polmonite da coronavirus, abbiamo fatto un danno con le politiche vaccinali antiifluenzali? Perché nessuno ne parla? C’è una correlazione tra le polmoniti da coronavirus e vaccini antiifluenzale? Cercare il virus dimenticando l’uomo è un errore fatale.
Insomma la medicina brancola nel buio riguardo alla cura dell’uomo nella sua interezza, i medici fanno quello che possono e quello che gli riesce meglio: usano la tecnologia, farmaci e sempre più macchine. Cosi sono entrate nella pratica clinica macchine sempre migliori per supportare gli organi che non ce la fanno, abbiamo ad esempio ventilatori per il polmone, macchine per vicariare la funzione del rene e in parte quella del fegato e quelle che si sostituiscono al cuore. Di conseguenza il medico interviene quando ha qualcosa da fare, prima non saprebbe cosa. Che hai la bocca amara tutte le mattina e ti svegli stanco non interessa al tuo medico, ma non perché non tenga alla tua salute, semplicemente perché per lui quel sintomo non significa nulla, e se anche egli sapesse ricavarvi una qualche informazione, non saprebbe che farsene.
Invece, quando hai un’ascite che ti comprime il torace, allora si che bisogna intervenire, perché quello è in fondo l’unico momento in cui il medico sa cosa fare.
Insomma ci sono sempre più malati gravi perché solo quando siamo proprio cotti, all’ultimo stadio, la medicina tecnologica dei nostri giorni sa fare veramente qualcosa, non prima.
Ecco perché in un sistema del genere si ha bisogno di una determinata proporzione di posti di terapia intensiva, perché non si sa intervenire prima, non si sa curare l’uomo, ma solamente i suoi organi quando sono oramai agli sgoccioli e questo si fa nei reparti di terapia intensiva. E la tendenza è di certo in crescendo, come la spesa sanitaria associata ad un simile modo di fare e concepire la salute. Siamo arrivati al punto che le società scientifiche sono costrette far riflettere i medici sui nuovi pressanti limiti etici che si profilano all’orizzonte, le risorse non possono stare dietro alle richieste sempre più onerose della tecnica, la medicina moderna non è sostenibile.
Se tutto è urgente allora nulla è più urgente
Tutto è divenuto urgente, ma se tutto è urgente allora nulla più è urgente, semplicemente bisognerebbe avere la capacità di capire che siamo entrati in un altro ritmo. Non è che ci si ammala improvvisamente, semplicemente si interviene sempre più tardi e quindi sempre più spesso in regime d’urgenza.
Questo affare del Covid sta facendo venire al pettine una quantità di fragilità insite nella nostra società su cui sarà bene riflettere se non vorremmo restarne vittime. I fatti di questi giorni potrebbero trasformarsi in un fortunato ammonimento. Ci sono criticità sociali, politiche, mediatiche, scientifiche ed esistenziali che questa storia ci sta insegnando, se avremo occhi per vedere.
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