In prima pagina sull’edizione internazionale del New York Times, un autorevole opinionista (Frederc Wehrey del Carnegie Endowment for International Peace) parla di avvisaglie di una seconda “Primavera Araba” quale conseguenza della diffusione della pandemia da coronavirus. Il pezzo si concentra sui paesi dove la situazione è più drammatica – Libia, Yemen, Siria – perché sono in corso devastanti guerre civili, tutte prodotte non dalle primavere arabe ma dagli interventi delle potenze occidentali e non solo e dalle successive guerre per procura.
L’eccezione tunisina
Alla Tunisia invece – dove la Primavera Araba è incominciata – l’autore dedica solo poche righe ma sono quelle che mi fanno venire un groppo in gola. Perché parla della Tunisia come “l’unica democrazia del mondo arabo”.
Per chi ha scommesso sulla portata storica della Rivoluzione – iniziata dieci anni orsono, nel dicembre del 2010, con il gesto disperato del venditore ambulante di una povera regione dell’interno – quella piccola frase vale più di quintali di pubblicazioni, accademiche e non. Si è tanto discusso e polemizzato, in questi anni, sulla portata di quella rivoluzione: se ha cambiato le cose, se ha portato dei benefici, se ne valeva la pena.
C’erano quelli che dicevano (e dicono) che si stava meglio prima.
Quelli che dicevano (e dicono) che tutti i governi che si sono succeduti in questi dieci anni sono stati un disastro.
Nella letteratura accademica si sono usati assai di più termini come “transizione” o “democratizzazione” – come dire che ce ne vuole ancora, prima che si possa parlare di democrazia tout court. E quindi che lo faccia un editoriale del New York Times dà una certa emozione e anche una certa soddisfazione.
Cosa trarne
Ma la notizia dovrebbe essere considerata una buona notizia da tutti noi italiani. Per chi non se lo ricordasse, il braccio di mare tra la Sicilia e la Tunisia è il punto più stretto del Mediterraneo. Che il nostro più immediato prossimo sia anche l’unico democratico di tutto il Nordafrica dovrebbe renderci felici – non ovviamente per gli altri paesi ma per avere proprio quello come vicino.
Siamo invece stupidamente inconsapevoli della nostra fortuna. Il versamento di cinquanta milioni di euro da parte dell’Italia alla Banca Centrale Tunisina a titolo di credito per sostenere le aziende tunisine è stato oggetto di veementi attacchi da parte dell’opposizione in Parlamento e sui media .
Inutile far notare che l’erogazione di un credito in base ad un accordo stipulato tre anni prima – invece della sospensione dell’accordo, pur giuridicamente legittima – nella situazione attuale rappresenta il minimo della decenza, prima ancora che della solidarietà.
E a questo argomento l’Italia dovrebbe essere più che sensibile: paesi cosiddetti in via di sviluppo si sono mostrati assai più generosi nei suoi confronti dei paesi fratelli europei cui pur la lega un patto che da vent’anni plasma le nostre vite. E se non valgono le ragioni del cuore sono anche le ragioni della politica e dell’economia che dovrebbero suggerirci di essere più attenti e disponibili nei confronti del nostro più immediato vicino dell’altra riva.
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