Questi giorni di difficoltà dovuti al Coronavirus hanno dato adito a molte discussioni e riflessioni anche profonde ed introspettive. Fra le discussioni più accese vi sono state quelle intorno alla fede e alla religione di fronte alla sofferenza in generale ed in particolare quella causata dal virus. Uno degli articoli recenti più espliciti in merito alla questione ad esempio è quello pubblicato sul giornale di Enrico Mentana OPEN e scritto da Felice Florio intitolato “Coronavirus. L’epidemia, il dolore, la morte. Dove si nasconde Dio?”
L’articolo in questione affronta il tema della cosiddetta teodicea, cioè la questione della sussistenza del male nel mondo in rapporto alla giustificazione della divinità e del suo operato, in modo superficiale e ben lontano dai fiumi di inchiostro che maestri spirituali, filosofi ed intellettuali hanno versato per rispondere alla questione.
L’articolo di Florio si conclude con le seguenti parole “Negli spazi lasciati da una comunità che non può più incontrarsi, crescono i dubbi e anche la fede può vacillare. “Dov’è finito Dio?”. “Una domanda posta a uomini di chiesa per cercare di comprendere ciò che sta succedendo. Perché anche un credo profondo rischia di non uscire indenne dal dolore terreno, reale, causato dall’epidemia.”
La teodicea è definita, come riporta Treccani, nella maniera seguente:
Nella filosofia di G.W. Leibniz, dottrina del diritto e della giustizia di Dio che mira a una giustificazione di Dio rispetto al problema della sussistenza del male nel mondo e del libero arbitrio umano. Secondo I. Kant, la difesa della suprema saggezza dell’autore del mondo contro chi lo accusa in nome di quanto in esso appare di negativo.
Leibniz e Kant, nonostante la loro enorme influenza sulla civiltà occidentale moderna, sono solo due fra i moltissimi pensatori che in Oriente e Occidente hanno risposto al problema della teodicea. Certo è che per chiunque abbia anche una conoscenza superficiale delle loro risposte l’utilizzo del termine “problema” appare come un errore.
Le religioni, ed in particolare quelle abramitiche (l’Islam, il Cristianesimo e il Giudaismo) hanno sempre chiarito la loro posizione di fronte alla sofferenza, seppur con alcune differenze dottrinali. In breve, all’interno del quadro dipinto da queste religioni la vita è un test ed è in questo contesto che la sofferenza va interpretata. Lo scopo ultimo dell’esistenza e il “funzionamento” del mondo non sono da valutare in un’ottica che vede il piacere come destinazione ultima, idea questa invece puramente materialista e liberista.
Lo scopo dell’esistenza è maturare e conoscere il Creatore ed affrontare le sofferenze per scoprire la propria forza ed il proprio potenziale.
Quello che noi definiamo superficialmente come “male” accade a causa delle conseguenze della nostra libertà di scelta, o per distogliere gli esseri umani dal proprio cammino e portarli alla riflessione interiore, o semplicemente per rendere più forte l’individuo di fronte alla sfida.
Spesso chi solleva il polverone della teodicea in modo superficiale parla della fame del mondo ad esempio chiedendo come si chiede l’articolo di Florio “dov’è finito Dio?”. Ebbene le religioni abramitiche rispondo con forza prorompente rimandando la domanda al mittente, costringendoci a guardarci allo specchio e a prenderci le nostre responsabilità chiedendo invece all’essere umano “voi dove siete?”.
Si parla di Dio dando per scontato che Dio esista per servirci, quando invece siamo noi a dover servire Lui. Certo è che la società materialista e senza freni di oggi è l’ultimo dei modelli sociali a potersi arrogare il diritto di chiedersi dove sia Dio con tale arroganza. La licenziosità, la corruzione, l’abbandono della spiritualità e della ricerca di scopo, l’egoismo più becero sono solo alcuni elementi di una lunga lista di “peccati” che dovrebbero almeno farci pensare due volte prima di incolpare “Dio” dei nostri errori.
Come rispondono i testi sacri al problema del male e della sofferenza dunque?
Ecco alcuni versetti del Corano: “La corruzione è apparsa sulla terra e nel mare a causa di ciò che hanno commesso le mani degli uomini, affinché Iddio gli faccia avere esperienza di parte di quello che hanno fatto. Forse ritorneranno sui loro passi?”
E ancora. “Sicuramente vi metteremo alla prova con paura, fame e diminuzione dei beni, delle persone e dei raccolti. Ebbene, da’ la buona novella a coloro che perseverano, coloro che quando li coglie una disgrazia dicono: Apparteniamo ad Iddio e a Lui ritorniamo. Quelli saranno benedetti dal loro Signore e saranno ben guidati.”
Il Nuovo Testamento recita: “Cari fratelli, pensate che la vostra vita sia piena di difficoltà e tentazioni? Allora, siatene felici, perché le difficoltà della vita aumentano la costanza. Lasciate, allora, che la vostra costanza cresca fino a raggiungere la perfezione, in modo che voi diventiate cristiani perfetti sotto ogni aspetto.”
Dei versetti del Vecchio Testamento recitano: “Ricordati di tutta la strada che l’Eterno, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant’anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che c’era nel tuo cuore e se tu osserveresti o no i suoi comandamenti. Così egli ti ha umiliato, ti ha fatto provar la fame, poi ti ha nutrito di manna che tu non conoscevi e che neppure i tuoi padri avevano mai conosciuto, per farti comprendere che l’uomo non vive soltanto di pane, ma vive di ogni parola che procede dalla bocca dell’Eterno.”
Le persone di fede sono ben lontane dalla crisi spirituale anzi, è in questi momenti in cui chi vive senza uno scopo ultimo e superiore si ritrova perso che il fedele trova invece la forza di andare avanti. Dove l’ateo o l’agnostico annegano nel mare di un’esistenza priva di scopo e priva di destinazione, il fedele riflette e cresce, è umile ed al servizio degli altri.
Quando i luoghi di culto sono svuotati il fedele sa che la fede non si limita alle quattro mura della moschea, della chiesa o della sinagoga. Chiediamoci dunque dove siamo noi prima di chiederci dove sia Dio.
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