Che fossero le scuole i primi luoghi pubblici a chiudere e gli ultimi ad aprire, era prevedibile e in un certo senso anche giustificabile. Ma stupisce o meglio indigna che il dibattito politico sulla scuola italiana si sia orientato verso la riapertura a settembre e alla didattica a distanza. Soprattutto ora che i principali Stati europei stanno programmando una graduale riapertura degli istituti scolastici, già agli inizi di maggio, parallelamente alla ripresa delle attività lavorative e produttive.
Tutti paesi consci non solo della funzione educativa della scuola, ma anche cinicamente di quella socio-economica, dato che nella maggior parte dei casi i primi istituti a ripartire saranno le scuole d’infanzia e primarie, necessarie per consentire ai genitori di poter tornare a lavoro. E non ci si riferisce ai soliti paesi scandinavi o all’atavica efficienza della Germania, ma alla Francia e alla Spagna, dove l’emergenza è iniziata dopo e ha avuto la stessa curva di contagi e decessi.
Come mai una tale differenza?
Una prima risposta potrebbe risiedere nella natura, già in sé emergenziale, delle normali politiche scolastiche italiane, che procedono a colpi di una riforma all’anno, impedendo una qualunque stabilità organizzativa sia del sistema scolastico che della didattica.
In secondo luogo l’annoso problema del sovraffollamento in aula, da cui conseguono quelle che, con turpe ma efficace espressione, vengono definite classi pollaio.
La precarietà dell’edilizia scolastica
Infine la precarietà dell’edilizia scolastica dislocata su gran parte del territorio, che viene esorcizzata o meglio sublimata da quei meravigliosi e ridicoli corsi sulla sicurezza, cui devono sottoporsi obbligatoriamente il personale scolastico e gli studenti. Precarietà che obbliga già, in tempi apparentemente normali, a frequenti chiusure provocate dalle tanto temute allerte meteo.
Intrecciando questi diversi elementi, risulta chiaramente come la soluzione politica più semplice consista nel tenere chiuse più a lungo possibile tutte le strutture educative.
Nel frattempo sono nate e si stanno consolidando le soluzioni politiche da meta-emergenza (cioè di emergenza in una condizione già strutturalmente di emergenza).
La didattica a distanza
La prima misura è stata l’implementazione della didattica a distanza, che per quanto deprecabile sia dal punto di vista pedagogico che umano, inizialmente forse era inevitabile. Inquieta invece che si stia già dibattendo, in vista del futuro anno scolastico, circa una possibile alternanza tra didattica a distanza e in presenza. Certo fare lezione online è la soluzione più affidabile, perché mette al riparo sia dal contagio virologico che dalla temibile diffusione di intelligenza critica… Basti pensare al fatto che le ore trascorse in classe costituiscono normalmente uno dei pochi momenti di disconnessione digitale.
L’Esame di Stato
La seconda probabile e aberrante misura riguarda l’Esame di Stato, che sta prendendo la forma di un colloquio orale, effettuato online. La maturità online sarebbe l’emblema della perenne immaturità del sistema scolastico italiano. Al momento non sembrano esserci ragioni politiche o sanitarie rilevanti per impedire che l’esame possa esser svolto in presenza, adottando anche tutte le necessarie misure di sicurezza. Prendendo spunto dalle acute riflessioni di un amico docente, sussiste infatti una sostanziale differenza tra un esame a distanza o in presenza, comparabile a quella esistente tra un’abitudine, che è un’azione meccanica, e un rito, che invece corrisponde ad un’azione dotata di significato simbolico.
L’esame di maturità on line
Infatti l’esame di maturità rappresenta uno dei pochi riti di passaggio presenti nella nostra società; come ogni rito di passaggio, necessità della presenza fisica e di una precisa configurazione spaziale. Un esame svolto online, sarebbe come partecipare a un matrimonio o un funerale su Skype: tutto sarebbe ridotto ad un alienante momento istituzionale e burocratico.
Accademie trasformate in Università pubblica telematica
Le ultime misure riguardano le Accademie, che si stanno trasformando in un’enorme università pubblica telematica, una sorta di Pegaso di Stato. Anche in questo caso, le preoccupazioni non riguardano il corrente anno accademico, che tira a campare sfruttando, come la scuola, la didattica a distanza piuttosto la possibilità che una parte di questi cambiamenti scivolino anche nel prossimo anno, fino a diventare subdolamente la normalità; non si tratta di un timore immaginario, dato che l’attuale dibattito politico già vi è diretto..
Allora che fare?
Sebbene inizino a farsi sentire timide proteste, soprattutto da parte di alcuni intellettuali e da molti genitori, mancano ancora molte voci. Dov’è quella degli insegnanti, ancora ferma all’eco stanco di sindacati sclerotizzati? O quella degli studenti, sopraffatti da un’inerzia inquietante? Proprio ora bisognerebbe protestare, nel momento in cui l’emergenza ha reso ancor più palesi le inefficienze strutturali del sistema scolastico.
E poi dove sono finite le Sardine, così esuberanti in tempi di normalità, ritappate in una scatola da un virus?
Se si continua a tacere, il cicaleccio dei politici e il pragmatismo invisibile dei tecnici, procederà inesorabile, trasformando lentamente l’educazione e la formazione in un ologramma di sé stesse.
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