Con una sentenza del 28 aprile 2020 il Consiglio di Stato ha definitivamente chiarito che la Moschea di Centocelle non è abusiva. Con questo atto si chiude una triste vicenda risalente a quattro anni fa quando prese il via una pesante stagione di chiusure dei centri islamici nella capitale soprattutto nella zona del V municipio dove vive la maggior parte dei musulmani capitolini.
Nella primavera del 2016 prese il via una vera e propria persecuzione ad opera della Polizia Municipale di Roma Capitale a danno della comunità islamica che reagì concentrando lo sforzo legale sulle sale di preghiera più grandi ma anche con manifestazioni pubbliche di venerdì, giorno della preghiera congregazionale. Queste manifestazioni culminarono nella Preghiera al Colosseo del 21 ottobre 2016 le cui immagini fecero il giro del mondo.
Una delle sale tenute aperte dall’azione legale era proprio quella di via dei Frassini rappresentata dall’Avv. Carlo Corbucci, più nota come “la famosa moschea di Centocelle”, anche se proprio lì a Centocelle (in via dei Gladioli) c’è un’altra moschea per la quale anche è stata ottenuta una storica sentenza di riapertura.
Il cambio di destinazione d’uso contestato, da laboratorio artigianale a servizi, è stato ritenuto non sanzionabile dal Consiglio di Stato perché non comporta “una variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968” cioè non si rileva “un maggior peso urbanistico effettivamente incidente sul tessuto urbano”. Per certi versi è stato ribadito lo stesso concetto della suddetta sentenza relativa all’altra moschea di Centocelle. In quell’occasione l’amministrazione aveva negato il cambio di destinazione d’uso dei locali ma il TAR aveva stabilito che non v’erano ostacoli alla concessione del cambio richiesto, quindi non sussisteva più il carattere “abusivo” dell’utilizzo come luogo di culto.
Siamo sempre alle solite: in assenza di una legge nazionale che stabilisca criteri oggettivi per la realizzazione dei luoghi di culto (anche in immobili preesistenti), la fruizione di un diritto fondamentale costituzionalmente garantito diventa una questione urbanistica. Con l’insensibilità e l’ignoranza media degli amministratori sulla materia religiosa abbiamo poi che questo diritto fondamentale delle persone è subordinato a scelte arbitrarie e discriminatorie. “Non c’è una norma per essere a norma” era lo slogan delle manifestazioni in piazza del 2016.
In questa lunga vicenda, iniziata esattamente 4 anni fa, ciò che ha mantenuto aperta fino ad ora la moschea (chiusa solo dal covid-19) è stato il cosiddetto fumus boni iuris, cioè la palese possibilità che il diritto vantato (dalla moschea) esistesse davvero. A sostanziare tale condizione, con la quale si è ottenuta la sospensiva sia del provvedimento amministrativo sia della sentenza avversa del TAR, è stato il fatto che la moschea in questione è li da tantissimi anni, è “famosa” anche per gli innumerevoli servizi TV, ed in essa tanti politici, amministratori e forze dell’ordine negli anni si sono fatti un selfie col cous-cous in mano. Nella sentenza si legge che “L’appellante ha argomentato che l’attuale destinazione d’uso del locale permane da tempo; e che la stessa amministrazione, negli anni, ha acconsentito (ed addirittura incoraggiato) l’attività che ivi si svolge”. Non si capisce quindi in cosa consistesse la “scoperta” di abuso fatta dalla Polizia Municipale.
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