L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’analizzare i rischi alla salute psichica legati alla pandemia, ha spiegato che: “Il principale impatto psicologico finora è rappresentato da elevati tassi di stress o ansia. Ma man mano che vengono introdotte nuove misure – in particolare la quarantena e i suoi effetti sulle normali attività, routine o mezzi di sostentamento di molte persone – si prevede che aumentino anche i livelli di solitudine, depressione, consumo dannoso di alcol e droghe e autolesionismo o tendenze suicide”
In aumento i suicidi da Covid
Una ricerca pubblicata a maggio infatti analizza l’impatto che il COVID-19 e le misure restrittive stanno avendo sul numero di suicidi. Molte persone rimaste senza lavoro, e dunque senza mezzi di sostentamento, si tolgono la vita. La quarantena ed il conseguente aumento della solitudine sono ulteriori fattori determinanti.
L’Italia, uno fra i paesi che ha adottato le misure più restrittive, non è purtroppo da meno. Stefano Callipo, Presidente dell’Osservatorio violenza e suicidio parlando dell’aumento dei suicidi “da COVID” ha detto:
“Stiamo registrando tantissimi casi di suicidio in questo periodo, l’ultimo a Ragusa dove un commerciante padre di tre figli si è tolto la vita. Un picco che reputiamo importante, legato alle difficoltà economiche di questo periodo e che non riguarda solo gli imprenditori ma anche le singole famiglie. Purtroppo, prevedo che questo picco tenderà ancora ad aumentare”
Il caso di Ragusa
Il triste caso di Ragusa che ha ricordato Callipo è emblematico. Il suicidio del padre di famiglia, così come molte altre storie di suicidio simili, non rappresentano un modo estremo di risolvere il problema ma un modo di fuggire dall’ansia e dallo stress. La morte dell’individuo infatti risulta sempre in un danno psicologico, emotivo o economico per i propri cari e mai in una risoluzione del problema. Suicidi simili hanno avuto luogo a Milano, Torino e Pisa e le storie sono anch’esse simili. Persone costrette alla cassa integrazione o che semplicemente hanno perso il lavoro a causa del virus decidono di togliersi la vita.
Capire il suicidio
Questi suicidi però non sono da attribuire direttamente al virus o alla restrizione. Sono tante le storie di individui che hanno vissuto situazioni traumatiche ben peggiori e ne sono uscite psicologicamente incolumi. Qual è dunque la differenza fra chi riesce ad affrontare queste situazioni di forte stress e chi crolla?
Il dolore mentale, fattore centrale in tutti i suicidi
Il suicidio è un problema molto complesso e le teorie che tentano di analizzarne le cause sono molte. Fra gli esperti più famosi che hanno tentato di sviluppare un modello di analisi vi è il suicidologo Edwin Shneidman (1918-2009). Egli credeva che il fattore centrale in tutti i suicidi fosse la presenza del “dolore mentale” e che l’influenza del dolore mentale nel pensiero teorico della suicidalità fosse enorme. Il dolore mentale è definito da Schneider come dolore e angoscia nella mente (Shneidman, 1993, p.51). È “il dolore dovuto alla vergogna o alla colpa, all’umiliazione, alla solitudine, alla paura, all’angoscia o alla paura dell’invecchiamento” (Shneidman, 1993, p.51).
“Il suicidio,” afferma Shneidman “non è necessariamente il desiderio di morire, ma è piuttosto un mezzo per porre fine al dolore psicologico”
Combattere il “suicidio da COVID”
Utilizzando l’analisi di Shneidman, possiamo interpretare il “suicidio da COVID” e la sua relazione con la perdita di lavoro come un forte dolore causato dall’idea di aver fallito. La ricerca di lavoro oggi è diventata un mantra quasi ossessivo e la vita dell’individuo ruota attorno ad esso. Una critica, seppur impopolare, potrebbe essere sollevata persino contro il contratto sociale che definisce lo Stato italiano, la Costituzione. Tutti conosciamo il valore costituzionale del lavoro: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.” Ma quando l’individuo, per fattori personali o per le inadempienze del Governo, non riesce a realizzare questo mantra che diviene lo scopo ultimo della vita dell’individuo, cosa resta?
La perdita di lavoro non significa fallimento
Sono pochi i modi di combattere questo problema, ed uno di questi può essere forse quello di cambiare prospettiva e priorità. Capire dunque che la perdita di lavoro non significa fallimento, ma transizione. La condizione umana è tale che far dipendere la nostra felicità da fattori contingenti è rischioso. Perdere quei fattori, come perdere il lavoro ad esempio, significa perdere ciò su cui la propria felicità e il proprio scopo dipendono. Le enormi ripercussioni di ciò a livello psicologico non sono difficili da immaginare.
La responsabilità dei Governi
La responsabilità dei Governi non deve essere sottovalutata. Se da un lato la psiche e l’emotività sono gli elementi più intimi di un individuo, le misure dei Governi durante il COVID non possono non tenere conto della salute psichica dei propri cittadini. Se è vero che degli sforzi ci sono stati, questi sono stati messi in secondo piano rispetto alle discussioni legate all’impatto economico. Ciò può essere esteso anche oltre la pandemia tale da portare i Governi ad adottare misure di “successo” che non si basino solamente sul PIL ma che prendano conto della felicità dei propri cittadini.
Indicatori umani
Un Governo che dovesse notare una forte caduta del PIL impiegherebbe tutti i propri sforzi per arginare il problema ed affrontarlo. Lo stesso deve essere dunque fatto per indicatori più “umani” che non si limitano al profitto. Nel frattempo, per chi affronta una situazione di difficoltà e di stress a causa della pandemia, può essere utile ricordare una frase del famoso scrittore svizzero Alain de Botton in merito all’ansia e allo stress. Essa, dice de Botton “è l’ancella delle ambizioni contemporanee”
E forse, sarebbe utile dire che essa è anche l’ancella di ambizioni temporanee.
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