In seguito alle polemiche sollevate da un post sulla pagina Facebook del Progetto Aisha, dobbiamo occuparci ancora una volta di libertà delle donne. E ricordare che questa libertà ha due volti: far rispettare le donne che scelgono di autodeterminarsi e tutelare le donne cui viene negata la possibilità di farlo. Quando si tratta di donne e ragazze musulmane, però, sembra che l’unico problema sia quello della tutela. Atteggiamento che sottende un doppio pregiudizio: che le donne musulmane siano incapaci di autodeterminazione o che essa venga loro sistematicamente negata.
Solo a partire da questo pregiudizio si capisce perché sia così difficile cogliere il senso di un messaggio destrutturante come quello di un velo integrale che vuole ricordare che se libertà ha da essere – e rispetto pure – essa deve essere in tutti i sensi: libertà di coprirsi e non solo libertà di spogliarsi, come già a suo tempo ricordava Fatima Mernissi.
Il corpo femminile portatore di elementi simbolici
Quanto poi all’invocazione della “sconforto” che certo abbigliamento causa alle donne, basti ricordare che nell’essere umano, appena oltrepassato lo stadio primitivo che ci raffiguriamo come stadio delle caverne, esso è sempre ricco di elementi simbolici e non solo pratici, e certo il corpo femminile, per volere stesso di Chi lo ha creato, è portatore privilegiato di questi elementi simbolici. Ma forse evochiamo la libertà femminile calpestata, quando vediamo ragazzine girare a gambe nude nei rigori degli inverni londinesi perché lo impone la moda, o modelle spaccarsi le caviglie mentre sfilano in passerella con tacchi vertiginosi che solo un acrobata può padroneggiare?
Portare il velo, messaggio di liberazione e trascendenza
E se vi sono ben noti casi di costrizione – ricordiamo però che sono pochissimi i paesi musulmani in cui il velo è obbligatorio – ciò autorizza forse a pensare che in paesi democratici come il nostro ogni donna musulmana sia oggetto di costrizione se non quando non porti oppure – o gioia! – accetti di togliere quel velo, ornamento e non disdoro di un volto femminile, ma rigettato per un oscuro e spesso inconsapevole rifiuto del suo messaggio simbolico che viene frettolosamente liquidato come messaggio di oppressione femminile perché non si vuole guardare al suo reale simbolismo che è di liberazione e trascendenza?
La scelta delle monache di clausura
Forse che, siccome è esistita la Monaca di Monza, e insieme a lei tante sue sfortunate sorelle come le Maddalene irlandesi, qualcuno ha mai pensato che tutte le monache, ieri come oggi, siano tali perché costrette da società maschiliste e famiglie opprimenti? Eppure le monache di clausura, che nascoste sotto veli e dietro fitte grate, abbandonano i loro anziani genitori e rinunciano all’amore e alla maternità, non sono residuo di Medioevo oscurantista ma esempio di scelta di spiritualità contemporanea – ne ha parlato recentemente Veltroni in una bella intervista – che, se non condiviso dal credo dell’islam, mai da esso è stato disprezzato.
E non ci risulta nemmeno che esse vengano considerate simbolo di oppressione femminile, per quanto si tratti di donne che, se eccezionalmente lasciano il loro luogo di reclusione (volontaria!), lo fanno chiedendo una dispensa ad una autorità maschile, Papa o vescovo a seconda dei casi.
Perchè anche il velo integrale può essere una libera scelta
Infine se qualcuno obietta che certe modalità di abbigliamento femminile – anzi siamo sinceri: una sola, il velo detto “integrale” – sono vietati per legge in certi paesi della democratica Europa, giova semplicemente ricordare, o spiegare a chi non lo sappia, che l’islam sulle leggi in paesi non musulmani ha una semplice prescrizione: tutto ciò che non va contro un obbligo del musulmano deve essere accettato e rispettato. E, per la stragrande maggioranza degli ulemà – i sapienti in grado di emettere pareri giurisprudenziali e cultuali – mentre il velo è un obbligo non lo è quello che nasconde il volto.
Non c’è obbligo nella religione
Per rassicurare ulteriormente gli inquieti difensori delle libertà femminili fuori da casa propria – pratica ahinoi storica dai tempi del colonialismo – trattasi di obbligo che mai può venire imposto come testimonia il luminoso versetto del sublime Corano “Lè iqrà fi din – Non c’è obbligo nella religione”.
La legge antiburqa
Se poi infine vogliamo tornare, con un piccolo sorriso sdrammatizzante, alle contingenze di casa nostra, come negare che la pandemia abbia introdotto dall’oggi al domani pratiche sociali inedite tra cui quel pezzo di stoffa che copre buona parte del volto e che chiamiamo “mascherina”? Come non accorgersi, sempre con un lieve sorriso, che atelier di moda e giovani stiliste hanno incominciato a trasformare il triste accessorio chirurgico in allegri e sfiziosi capi di abbigliamento che già si possono ammirare nelle boutiques, mentre banche e ospedali della Lombardia hanno dimenticato di togliere gli avvisi che in ottemperanza ad una delibera regionale vietano di entrare nei pubblici uffici con il volto coperto, divieto debitamente illustrato da tre silhouettes – un burqa, un casco e un passamontagna – onde non si possa accusare di discriminazione una norma, peraltro esplicativa di una legge nazionale già esistente, che la smaliziata opinione pubblica chiama sbrigativamente “legge antiburqa”?
La piena libertà femminile
La strada da percorrere per la piena libertà femminile è dunque lunga ancora e richiede non proclami altisonanti ma un lavoro di fino, che passa anche dal linguaggio, dai simboli, dalle rappresentazioni dominanti e dall’inconscio collettivo: un lavoro culturale dal quale, nella convinzione delle musulmane – come già prima in quella dei movimenti delle donne – non può che trarre beneficio l’intera società, non solo le musulmane, non solo le donne.
Chiara Sebastiani è Sociologa, politologa, psicoanalista, già docente dell’università di Bologna e interviene in quanto collaboratrice del Progetto Aisha
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