Incontro Aisha Silvia Romano in zona Via Padova a Milano, non faccio in tempo a salutarla che una signora egiziana la riconosce: “sei Silvia?” le chiede.
Per discrezione non mi avvicino e quindi non sento molto di ciò che si dicono in quei pochi secondi, vedo solo che dagli occhi della signora scendono due lacrime di commozione. Aisha Silvia sorride e si salutano. Inizia così la nostra intervista.
Prima della partenza e prima ancora del rapimento, che visione avevi della religione?
Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male … quindi Dio non esiste, altrimenti eviterebbe tutto questo dolore.
Mi ponevo queste domande rarissime volte, solo quando – appunto – mi confrontavo con i grandi mali del mondo. Nel resto della mia vita ero indifferente, vivevo inseguendo i miei desideri, i miei sogni e i miei piaceri.
Però avevi già un’etica?
Per me il giusto, prima, era semplicemente fare ciò che mi faceva sentire bene; non avevo un criterio diverso relativamente a ciò che fosse giusto e sbagliato; il bene per me corrispondeva a ciò che mi faceva sentire bene. In realtà ora capisco che mi illudevo mi facesse stare bene.
Hai sempre avuto uno slancio verso i più deboli, una spinta che ti faceva agire per rimediare all’ingiustizia o avevi più un moto di pietà? Cosa ti ha spinto a partire?
Fino alla fine del mio terzo ed ultimo anno di università, poco prima della mia tesi di laurea, non avevo un particolare interesse nel partire e andare a fare volontariato.
Verso la fine della tesi mi interessai moltissimo all’argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie.
Sei diventata più empatica in quel momento?
Sono sempre stata compassionevole, molto sensibile nei confronti dei bambini, delle donne maltrattate, ho sempre sentito molta empatia, ma il passo successivo, quello di agire davvero, di rendermi utile all’altro con l’azione l’ho fatto solo alla fine dell’università. Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri.
Sei cresciuta in un quartiere multietnico, come si poneva la tua famiglia di fronte a questa realtà?
Sono cresciuta in un ambiente multietnico, il contesto del Parco Trotter dove sono andata a scuola e di Via Padova
Mio padre e mia madre sono sempre stati aperti mentalmente, tolleranti, non hanno mai discriminato e io ho sempre avuto amici di provenienze diverse. I miei genitori mi hanno sempre insegnato a considerare il diverso come un arricchimento, con mia mamma ho sempre viaggiato tantissimo.
Ogni estate andavamo in un paese diverso, dal Marocco alla Repubblica Dominicana, all’Egitto, a Capo Verde.
Quindi i musulmani li avevi già conosciuti?
Sì, ma l’idea che avevo dell’Islam era quella che in molti purtroppo hanno quando non ne sanno niente. Quando vedevo le donne col velo in Via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo.
Quindi Silvia Romano avrebbe potuto essere una fra i tanti islamofobi?
Io non avevo paura del diverso e nemmeno ostilità, ma quel pregiudizio negativo c’era.
Sicuramente, pur pensando certe cose non le avrei mai dette per evitare di ferire gli altri, ma sì, il pregiudizio lo avevo; per quello posso capire chi oggi, non conoscendo l’Islam, pensa queste cose.
All’epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l’Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere.
Vivi a contatto, ti fai un’idea ma non vai mai a porre una domanda direttamente alle persone, nonostante siano vicine a te.
A Chakama, il villaggio in Kenya dove facevi volontariato, c’erano dei musulmani?
Sì, c’era una moschea, c’erano i musulmani, un mio grande amico era musulmano ma io non mi sono mai posta molte domande. Il venerdì lo vedevo con la tunica e sapevo che andava alla moschea, ma la cosa è rimasta lì. C’erano anche delle ragazzine che il venerdì vedevo con il velo ma non c’era proprio interesse da parte mia.
Quando è suonato il primo campanello rispetto a Dio? C’è stato un momento in cui hai sentito qualcosa? Un pensiero che ti ha aperto un varco nella coscienza, nel cuore?
Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso?
Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Mentre camminavo, più mi chiedevo se fosse il caso o il mio destino, più soffrivo perché non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di trovarla.
Farti questa domanda era un modo per sentirti meglio?
No, più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non trovavo la risposta e andavo in ansia. Non avevo la risposta ma sapevo che c’era e ci dovevo arrivare.
Capivo che c’era qualcosa di potente ma non l’avevo ancora individuato, però capivo che si trattava di un disegno, qualcuno lassù lo aveva deciso.
Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito.
Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui.
Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia; Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui.
Le persone che ti tenevano prigioniera, per quanto possano essere state gentili con te, stavano commettendo un’ingiustizia nei tuoi confronti; la loro azione è illegittima quindi non è facile comprendere come si possa abbracciare la fede di quanti ti stanno facendo un simile torto.
Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al Shabaab! Ad un certo punto sentii che era un miracolo, per questo la mia ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza dell’esistenza di Dio.
A un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno.
Chiedevi forza per resistere in quella situazione?
Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l’arabo, vivevo nella paura dell’incertezza del mio destino. Ma più il tempo passava e più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come…
Qual è stato tuo rapporto con il Corano?
La prima volta ci misi due mesi a leggere il Corano, mentre la seconda mi fermavo a riflettere più seriamente e sentivo sempre più il bisogno di leggerlo, fino a quando ho abbracciato l’Islam. Di fronte a molti versetti avevo la sensazione che Dio si rivolgesse a me, mi colpivano al cuore.
Avevo anche letto alcuni versi della Bibbia e appreso i punti in comune del Cristianesimo e dell’Islam. In definitiva, il Corano mi era parso un testo sacro con dei principi chiari che guidavano verso il bene.
C’è qualche surah a cui sei particolarmente affezionata?
Imparai un versetto prima ancora di diventare musulmana, il versetto 70 della surah al Anfal: “O Profeta, di’ ai prigionieri che sono nelle vostre mani: – Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso.”
Imparai anche la prima surah del Corano, al Fatihah, e iniziai a pregare pur non sapendo come pregare.
Un altro versetto che mi colpì molto fu:“Come potete essere ingrati nei confronti di Dio, quando eravate morti ed Egli vi ha dato la vita? Poi vi farà morire e vi riporterà alla vita e poi a Lui sarete ricondotti.” Corano 2/28
E anche: “Se Dio vi sostiene, nessuno vi può sconfiggere. Se vi abbandona, chi vi potrà aiutare? Confidino in Dio i credenti.” Corano 3/160
Nella mia condizione leggevo questi versetti e li sentivo come rivolti direttamente a me.
Quando sei diventata musulmana ed hai iniziato a pregare, che atteggiamento avevi verso il tuo destino? Pensavi che sarebbe comunque andata bene? Eri pronta ad accettare qualsiasi cosa?
La fede ha diversi gradi e la mia si è sviluppata con il tempo. Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me.
Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere.
Più aumentava la mia fede e più – quando ero triste – chiedevo a Dio la pazienza e la forza, chiedevo a Dio che rafforzasse ulteriormente la mia fede.
Ti sei posta il problema di ritrovarti una persona diversa, di aver accettato qualcosa fino a prima estraneo a te e di aver fatto una scelta che avrebbe modificato radicalmente la tua vita?
Prima di accettare l’Islam avevo avuto delle fasi in cui avevo intuito che l’Islam fosse la strada giusta. In un momento in particolare credevo di esser convinta di poter accettare la religione, ma mi fermò la paura delle reazioni degli altri.
Ho pregato tantissime volte Dio affinché rafforzasse la mia fede per quello a cui sarei andata incontro, che rafforzasse la mia fede per affrontare tutte le offese che avrei ricevuto.
Quindi eri consapevole di questa ostilità?
Sì, certo. Avevo sviluppato la consapevolezza attraverso lo studio della vita del Profeta Muhammad, la vita dei suoi Compagni e me n’ero già fatta un’idea.
I musulmani sin dall’inizio dell’Islam sono stati perseguitati
Perché, secondo te?
Perché l’Islam è la religione che va contro un sistema basato sulle ingiustizie, sul potere del dio denaro, la corruzione e la falsità, e questo spesso è scomodo.
Molte delle reazioni negative nei tuoi confronti nascono fondamentalmente da questo pensiero: questa ragazza era libera di andare dove voleva di fare quello che voleva, stare con chi voleva vestirsi come voleva e va a scegliersi una condizione in cui è meno libera, è sottomessa, è considerata inferiore rispetto all’uomo … com’è possibile?
Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti.
C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo.
Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima.
Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale.
Ora ti senti meno libera di fare le cose, di muoverti, di lavorare, di incontrare le persone, di girare?
Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio.
La scelta del nome com’è avvenuta?
Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell’ATM c’era scritto Aisha e poi è un nome che significa “viva”.
In cosa ti senti una persona migliore oggi?
Oggi sono molto più paziente, sono molto più rispettosa nei confronti dei miei genitori, mentre talvolta, nel passato, non lo ero stata; mi sento più generosa e molto più compassionevole perché quando qualcuno mi fa un torto, quando qualcuno sbaglia nei miei confronti, anche di fronte ad offese e contrasti, sento il mio cuore completamente privo di rancore, di rabbia. Non mi viene da rispondere con le stesse offese ma cerco sempre il motivo per comprendere quella persona, penso che quella persona faccia così perché soffre e quindi io la posso e la devo aiutare.
Rispetto alla comunità islamica, invece, che aspettative avevi?
Non vedevo l’ora di conoscere i musulmani, ma pensavo che sarebbe stato difficile. La mia idea era di andare in Via Padova, entrare in qualche negozio o in qualche macelleria islamica e dire: “Assalamu aleikum”. Non avevo ancora la consapevolezza di essere così tanto conosciuta; pensavo di dover passare la festa di Ramadan da sola.
Invece ho ricevuto regali, moltissime lettere e il video pubblicato su La Luce dove c’erano tantissimi musulmani da tutta Italia mi sono sentita sconvolta dalla felicità.
Cosa ti ha colpito della comunità?
Innanzitutto non mi aspettavo che ci fossero tutti questi italiani musulmani; mi immaginavo di entrare in contatto subito con egiziani, marocchini, africani musulmani… invece, prima degli arabi ho conosciuto gli italiani musulmani ed è stata una sorpresa enorme. Mi ha colpito la fratellanza nei miei confronti da parte di tutti i musulmani qua a Milano, e non solo a Milano; la solidarietà e l’affetto mi hanno fatto sentire parte di una seconda famiglia.
Poi ho scoperto una realtà di cui non avevo minimamente idea, fattà di tantissime associazioni della comunità musulmana di Milano, e non solo, che ogni giorno si impegnano nell’aiutare i più deboli, i più vulnerabili, le vittime delle ingiustizie; in particolare mi è piaciuto molto il Progetto Aisha che si occupa di donne, tutte queste iniziative hanno accresciuto in me la voglia di partecipare.
[…] Dell’intervista a Silvia Romano, diventata Aisha durante il suo lungo rapimento in Africa, mi ha particolarmente interessato il tema della libertà. A muovermi non è solo l’affetto per lei (angoscia, preghiere e, infine, gioia di rivederla tornare sana e salva, a prescindere dal vestito) ma anche il lavoro di studio dell’islam e quello di osservazione diretta delle conversioni in stato di detenzione. Per entrambi i motivi il testo pubblicato su un sito islamico italiano merita attenzione. […]