Dall’atomo, particella che fu l’ultimo frammento della materia indivisibile, nacque una bomba che conferì alla guerra una nuova natura invisibile. Seguirono decenni retti da una pace apparente, una facciata sorretta da vesti mediatiche sempre pronte ad abbagliare e distrarre gli sguardi dell’opinione pubblica. In un tale scenario i nemici visibili cambiano volto continuamente: ciccioni autisticamente seduti su un immaginario missile nordcoreano, uomini scuri con la pelle scavata dal sole, musulmani velati d’ignoto, un indecifrabile codice genetico riassunto nel nome di un virus.
L’Occidente si specchia nelle immagini di finti nemici, per evitare di guardare i propri occhi stanchi ed impotenti di fronte all’inquinamento di una terra, dove il denaro si emancipa sempre più dalla sua essenza materiale di moneta per diventare pura potenza della finanza. Ogni cosa finisce intrappolata nella rete dell’attualità; le maglie d’internet catturano le notizie, le trattengono per qualche istante per poi rilasciarle nell’oblio del mare aperto. Una sorta di pesca sportiva dell’informazione, alle cui spalle una sola cosa non muta la sua sostanza: la forma del potere.
E se il mondo avesse bisogno allora di una reale Guerra?
Dietro una tale provocatoria domanda, non si nascondono echi futuristi o superomismi travisati da piccoli uomini. In fondo c’è la semplice consapevolezza che, insieme alla sua capacità di tragica distruzione, la guerra ha da sempre risposto a determinate funzioni: sancire la caduta di un impero; rafforzare la propria identità in opposizione ad un nemico; favorire la ricostruzione, non solo materiale ma anche culturale di un paese, ma soprattutto la capacità di sopprimere un sistema di potere indebolito e incancrenito, che altrimenti avrebbe continuato a provocare molti più danni.
In questo nostro tempo il potere non ha più radici politiche o religiose, le quali a loro volta sono diventate solo frutti visibili di una forza ben più radicata: la tecnica unita al denaro, connubio in grado di dar vita al capitalismo tecnologico e finanziario, l’unica reale e allo stesso tempo impercettibile forma di potere contemporaneo.
Senza un’opposizione frontale, o meglio uno scontro anche brutale tra forze in aperto conflitto, tale sistema si rigenera senza rigenerare; ogni sua parte continua ad alimentarsi, nel suo ruolo ridotto a parassita. Emblematico in questo senso è il ruolo dei sindacati nella società contemporanea: figli della lotta sociale, molto vicina alla guerra civile, hanno favorito nel tempo il riconoscimento di un insieme di diritti fondamentali dei lavoratori. Nel momento in cui si sono istituzionalizzati e hanno dimenticato la loro origine conflittuale, sono diventati mera appendice dell’apparato burocratico.
Nel linguaggio filosofico la guerra, nella sua essenza di conflitto, prende il nome di dialettica. Si tratta di una logica processuale, intuita da Eraclito e declinata da Hegel, necessaria a conservare l’equilibrio di ogni aspetto del reale, mediante la contrapposizione di forze opposte. Salute-malattia, vita-morte, ancor più in generale bene-male; si tratta di alcune delle tipiche antitesi mediante le quali l’umano riesce a sdoppiare il contenuto del reale per definirsi e individuarsi in maniera dinamica, rifuggendo la stasi, presagio di un ristagno declinante.
Qualità che diventa misconosciuta in questi tempi, se li osserviamo dalla prospettiva di un graduale disconoscimento della morte, del confinamento scientifico della malattia, della banalizzazione del male: fino ad arrivare alla guerra divenuta invisibile e ad una pace soltanto apparente.
Ogni aspetto della realtà sociale, senza il suo naturale opposto, che lo costringe a rinforzarsi ed evolversi, sbiadisce a poco a poco, implodendo nella sua stessa contraddizione.
In altre parole quest’epoca può esser letta come un’infinita affermazione, infiacchita dalla mancanza di una reale negazione, all’interno della quale i cicli storici, normalmente caratterizzati dal susseguirsi di diversi imperi, modelli culturali o tipologie di società, vengono inibiti da un continuo riciclo. Un sistema paragonabile ad una veste stesa sul mondo globale. Ogni qualvolta viene scoperta una falla, si prova subito a nasconderla con cuciture maldestre.
Si chiede infatti alla tecnologia di risolvere l’insostenibile inquinamento da lei stessa creato, oppure si aumenta il denaro in circolazione per rimediare ai problemi creati dal denaro stesso, pervertito in finanza.
Finché la veste si terrà in vita, allora resterà in voga il termine crisi, che da anni ormai si applica ad ogni fenomeno dell’attualità: crisi dello stato, delle istituzioni, della scuola, dell’arte, della democrazia…l’elenco è praticamente infinito, tanto da poter parlare di una società della crisi. In effetti non si tratta di una parola scelta casualmente, dato che crisi sta ad indicare la condizione di sospensione tra l’affermazione e la negazione, per esempio di un’identità, incapace di scegliersi.
È proprio quel che accade a questo tempo, figlio di un costante bilico tra gli opposti, apparentato ad un conflitto che continua a rinviarsi. La crisi durerà finché la veste non si strapperà, e il cosiddetto mondo globale infine si scoprirà nudo.