Il ritorno di Aya Sofia a luogo di culto islamico, come prevedibile, ha suscitato molto clamore in tutto il mondo. Il culmine di questo clamore è stato il rammarico espresso dal Papa all’Angelus di ieri. Anche se quello di Bergoglio si aggiunge alla lista dei rammarichi espressi dalle autorità cristiane ortodosse, le sue dichiarazioni vanno inquadrate piuttosto nel solco della politica d’ingerenza dell’Occidente nei confronti dell’Oriente islamico, e della Turchia in particolare.
La politica estera del Vaticano di Bergoglio
Con la firma del “patto di Abu Dhabi” il Papa è entrato a gamba tesa nel conflitto politico che divide il fu mondo islamico, scendendo preponderantemente in campo come capo di Stato che fa politica estera, anche se col cappello del dialogo interreligioso.
E’ in quest’ottica che va letto il suo rammarico per il ripristino della destinazione d’uso a moschea di Aya Sofia. Il papa il patto l’aveva firmato con la parte di quel mondo che è in conflitto con la Turchia. Ben inteso, si può anche essere d’accordo con la scelta di parte fatta del Papa, a patto però che si tenga a mente che dello schieramento scelto da Bergoglio fanno parte anche l’Arabia Saudita e l’Egitto di Al Sisi, dal quale (guarda caso) non riusciamo ad ottenere giustizia per Giulio Regeni. Ed a patto che si tenga bene a mente anche che la scelta del Papa è politica e non religiosa.
Il ruolo della Chiesa Occidentale su Aya Sofia
Prima della riforma protestante (XVI secolo), quindi anche al momento della Conquista Ottomana del 1453, la Chiesa Cattolica Romana era la Chiesa d’Occidente. Aya Sofia invece era la sede del Patriarcato di Costantinopoli, dal 1054 Chiesa d’Oriente. La quarta crociata della chiesa d’occidente non fu uno scontro bellico contro i musulmani, per la riconquista di Gerusalemme, ma fu una conquista di Costantinopoli (1204) strappata quindi alla Chiesa d’Oriente. Venne istituito il rapace Impero Latino di Costantinopoli (1204-1261) ed anche dopo la sua dissoluzione per circa un secolo i sovrani occidentali continuavano a considerare i discendenti dell’ultimo imperatore latino come legittimi sovrani di quelle terre e il titolo di Imperatore Latino di Costantinopoli venne usato fino al 1383. La Chiesa Cattolica invece ha tenuto in vita il Patriarcato Latino di Costantinopoli, anche se solo nominalmente, fino al 1964 (praticamente fino all’altro ieri).
Riguardo ad Aya Sofia questa fu letteralmente saccheggiata e volgarmente profanata durante la presa cattolica della città nel 1204, ed alla riconquista bizantina (1261) era in uno stato fatiscente.
Due secoli dopo, quando gli ottomani erano ormai alle porte, l’Impero Bizantino chiese aiuto all’Occidente che però pretese in cambio la “riunificazione” della Chiesa d’Oriente con quella d’Occidente (da cui si era scissa nel 1054). La qual cosa ebbe anche una sua formalizzazione durante il Concilio di Firenze (1439) ma… gli scarsi aiuti militari arrivarono (guarda caso) comunque tardi, quando la città era già caduta in mano agli ottomani. Luca Notara, ultimo granduca dell’Impero Bizantino, affermò nel 1452: “meglio il turbante musulmano che la mitra papale”, concetto condiviso da larga parte del clero bizantino.
Tra conquiste e riconquiste
Con la conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453 Aya Sofia è stata trasformata in moschea e il Patriarcato di Costantinopoli si spostò laddove ancora si trova, nel quartiere di Fanar.
Nel 1492 invece la cristianità cattolica terminava la reconquista dell’Andalusia ed espulse tutti gli ebrei ed i musulmani che non si convertirono al cattolicesimo. Molti ebrei si trasferirono in terre islamiche, nel Maghreb e nell’Impero Ottomano la cui tolleranza religiosa è cosa poco nota a chi solitamente affronta il tema della conquista di Costantinopoli. Lo storico Alessandro Barbero ne parla esplicitamente come di un impero “multietnico e multireligios, antenato di gran parte dei paesi dell’Europa sudorientale e del Mediterraneo ed erede dell’Impero Romano d’Oriente. Un impero musulmano anche se non tutta la popolazione era musulmana”.
In Spagna invece, dopo la reconquista, i musulmani vi hanno rimesso piede solo con l’immigrazione del XX secolo e l’editto del 1492 sull’espulsione degli ebrei fu formalmente revocato solo nel 1968 (sempre l’altro ieri).
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Lo smemorato Occidente sedicente cristiano e anti islamico
A quella parte di Occidente che su Aya Sofia e su Istanbul ha dei rigurgiti di cristianità va detto che è necessario un minimo di cognizione storica per non farsi sopraffare da falsi sentimentalismi. La proporzione tra la tolleranza religiosa islamica-ottomana e l’intolleranza cristiano-cattolica è quella esposta poc’anzi. Quello descritto un po’ più sopra invece è il bene che la cristianità occidentale ha sempre voluto alla cristianità orientale (Costantinopoli compresa, ed Aya Sofia inclusa). Al Papa non è necessario ricordare la Storia, si spera.
L’Occidente laicista, anti Erdogan ed anti islamico
Come già accaduto durante l’operazione militare di Ankara sul territorio siriano controllato dalle milizie curde, quando di parla di Erdogan la condanna è unanime, ed il pensiero unico risucchia ciecamente anche la cosiddetta sinistra. Questo pensiero unico si era palesato in tutto il suo “spessore” già durante il tentato colpo di stato del 2016. Tutti i notiziari commentavano l’evento in diretta dicendo che era “in corso un golpe democratico” e poi, quando Erdogan riprese il controllo del paese, a reti unificate ci è stato raccontato che forse il golpe era finto, e si recriminava sul fatto che i (presunti?) golpisti non venissero trattati con i guanti (forse perché democratici?).
Su Aya Sofia si pretende di partire da un dato di fatto che si considera, dal punto di vista occidentale, come positivo. Nel 1935 Ataturk ne fece un museo e qualsiasi cosa abbia fatto Ataturk per l’Occidente è cosa buona e giusta, e da difendere, anche dal volere dei turchi. Un dato storico inconfutabile della figura di Ataturk fu la sua dura e durevole repressione del sentimento religioso che era diffusissimo, e su questo aspetto l’Occidente tace per non intaccare il mito di questo personaggio.
Il fatto che questo sentimento religioso si sia riaffermato in Turchia fa storcere il naso ai laicisti, quelli che riescono a considerare come valore positivo la repressione di un diffuso sentimento popolare, cosi come riescono a considerare democratico un golpe. A questi, anche se a messa non ci vanno mai, faranno di certo piacere le parole del Papa.
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Stabilito che per parlare di Storia un po’ bisognerebbe conoscerla, e che chi conia ossimori come “golpe democratico” non dovrebbe essere credibile (anche se dirige un TG…), va stabilita un’altra cosa importante: la Turchia non è uno stato fantoccio ed ha la forza militare per respingere le ingerenze estere che la minacciano costantemente. Quindi, esercitato il nostro sacrosanto diritto alla parola, dovremmo renderci conto che stiamo parlando a vuoto.
E se ne dovrebbero rendere conto anche i musulmani che hanno manifestato giubilo per il presunto imminente cambio di destinazione d’uso di Aya Sofia. Quella di Erdogan non è una mossa religiosa, lui non è un leader religioso anche se gli va riconosciuto che ha dato modo al popolo turco di rivivere il sentimento religioso che la dura repressione kemalista aveva relegato alla sfera privata, quando non a quella clandestina come nel caso del sufismo (chi paga per vedere finti dervisci roteanti a Istanbul, per poi raccontarli al rientro come “musulmani tolleranti”, spesso ignora che Ataturk mise fuori legge le confraternite sufi nel 1925 e che quello a cui hanno assistito era uno spettacolo per turisti).
Quella di Erdogan è una mossa squisitamente politica, criticabilissima (meglio se da persone credibili), ma non è né una dichiarazione di guerra all’Occidente né un provvedimento di carattere religioso. Erdogan è un leader politico che gode ancora di molto consenso popolare e cerca di recuperare il consenso perso invece dal suo partito. Il suo elettorato di riferimento si riconosce nei valori religiosi ma anche il sentimento antireligioso è diffuso in Turchia e trova la sua rappresentazione politica.
Aya Sofia moschea è stata una promessa elettorale che non è servita al partito di Erdogan per vincere le ultime amministrative a Istanbul (perse due volte, cioè anche dopo aver annullato la prima tornata). Come ben raccontato da Oran Pamuk (Istanbul, 2003) l’ex capitale dell’Impero Ottomano ha avuto una storia diversa dal resto della Turchia.
Come capitale della neonata repubblica venne scelta Ankara e la “turchizzazione” di Istanbul è avvenuta addirittura dopo la morte di Ataturk (anche l’etnicizzazione della Turchia è figlia di Ataturk). E’ probabile anche che in città, dove le moschee di certo non mancano, la fine di Aya Sofia come museo venga vissuta tendenzialmente con dispiacere, ma non per amore della Storia, dell’arte e del dialogo interreligioso. Parliamo di una città in cui si lavora molto col turismo ed Aya Sofia è il museo più visitato della Turchia nonostante sia quello col biglietto più caro. Però quella di Erdogan è una mossa di politica rivolta a tutto il paese, anche se dall’esito nient’affatto scontato.
E’ noto che la Turchia non si preoccupa molto della sua immagine all’estero, lasciando ai suoi detrattori internazionali il monopolio della narrazione che arriva a noi. Ma quella su Aya Sofia resta una scelta di politica interna, fatta da uno stato sovrano, con buona pace del rammarico del Papa, dei cristiani a corrente alternata, e dei laicisti