Nel dibattito che si è sviluppato in questi giorni sulla stampa e sui social a proposito della questione del velo, partendo dall’intervista alla sorella Silvia Aisha Romano, rilasciata proprio a questo giornale, abbiamo assistito ad una ennesima confusione di piani sull’Islam.
Il processo durante il quale un’anima si avvicina all’adorazione del Signore ricercando l’eccellenza spirituale è in fondo la vera essenziale motivazione di tutti i comportamenti di quella persona, ivi compreso la decisione di portare l’hijab, che in questo caso riveste il ruolo di rafforzatore in un processo di liberazione personale dai lacci della quotidianità e dall Ésprit des Temps.
Chiunque abbia studiato anche superficialmente le biografie dei grandi uomini di fede, delle mistiche musulmane o anche dei grandi sapienti della Storia, avrà senz’altro notato come queste anime anelano incessantemente alla liberazione delle catene del mondo terreno per godere dell’amicizia e della vicinanza dei Pii e dell’amore da parte di Dio. Ogni anima sincera quando si avvicina alla fede ha in sé una scintilla di questo sentimento ed è questo che la muove.
Nessuno di noi sarebbe mai stata capace di affrontare gli ostacoli che la vita ci ha messo di fronte, quando abbiamo abbracciato l’islam, senza questa volontà di compiacere Dio e di elevarsi, di superare gli angusti recinti della vita materiale e le contraddizioni della vita moderna.
Non prendere in considerazione questo processo ed iniziare un discorso di diritti e di libertà relativo a strutture di potere terreno condanna tutti gli analisti, con qualche rara eccezione, alla cecità intellettuale più completa e a intavolare un dialogo tra sordi con i credenti.
Come nel racconto sufi in cui dieci uomini ciechi vengono messi vicino ad un elefante e ciascuno descrive come elefante la parte che riesce a toccare : così per la femminista esiste solo il patriarcato, per la pasionaria sorosiana solo i diritti delle presunte lapidate, per lo studioso cristiano solo la somiglianza tra l’islam ed il cristianesimo e per il pacifista il “volemose bene”.
A prescindere dalla buona fede o meno ( di cui non discuto ) in ogni caso l’islam appare nel loro specchio deformato sovente in modo caricaturale. Quando poi si prende in considerazione il fatto ovvio che questi intellettuali dovrebbero avere almeno qualche nozione di ciò che è il credo islamico per orientarsi, e invece ignorano tutto dell’Islam classico, allora noi dovremmo avere il coraggio di dir loro che non hanno nessun diritto di parlare d’Islam fuori dal loro ristretto campo di indagine che si tratti di sociologi, antropologi o peggio di bloggers o giornalisti.
Dove non c’è competenza non esiste credibilità.
Nessuno di noi diventa musulmano/a pro o contro il maschilismo, il femminismo o qualsiasi altro “-ismo” si trovi su questa terra.
La lotta contro la tirannide comprende ovviamente quella contro ogni forma di violenza sociale o domestica, ma chi intraprende questa strada lo fa come conseguenza di un ordine divino proprio in virtù di quel sentimento ignorato e messo da parte.
La lotta contro le strutture del peccato e la purificazione dell’anima sono strettamente legate, ma non possono avere una lettura esclusivamente sociologica o antropologica.
Questo tema sublime non importa un fico secco alle nostre bloggers assetate di successo, agli attivisti per i diritti umani a corrente alternata, ai baroni di Facoltà che con l’islam ci fanno carriera o agli altri esperti politicizzati ed ideologizzati che usano l’Islam come una cartina di tornasole per le loro personali idiosincrasie.
Certamente ci sono eccezioni e non sono tutti così, basta citare lo storico Franco Cardini, il prof. Massimo Campanini, la giovane antropologa Renata Pepicelli o il suo collega Fabrizio Ciocca ( e molti altri ).
Purtroppo sono anni che subiamo, come ha recentemente denunciato la sorella Marisa Iannucci in un video sul suo canale You Tube, il pressappochismo di esperti che non conoscono profondamente l’arabo, che traducono i testi in maniera tendenziosa, che non amano l’oggetto del loro studio a causa dei loro pregiudizi ideologici e del loro eurocentrismo e che non danno spazio alle intellettuali musulmane per costruire un discorso dentro l’accademia o nelle riviste specialistiche, ne tantomeno sui giornali.
Giornalisti e bloggers sono tra l’altro tra i meno preparati in assoluto in politica estera, figuriamoci quando si dovrebbe affrontare l’argomento di un’altra civiltà senza i pregiudizi di chi domina il mondo e vive sulle guerre fatte ai popoli, mentre la domenica si rifà il trucco parlando di diritti umani e di migranti.
Se l’esperta è musulmana non è credibile e non farà carriera, verrà trattata come un intrusa, una provocatrice, una quinta colonna di un ipotetico nemico, a meno che non si prostri a tappetino condividendo le idiosincrasie di qualche capo scuola più o meno liberale.
Sta a noi invece organizzarci e costruire una cultura partendo proprio da quella cura delle anime che è sempre stata importante nella storia musulmana, attraverso la ricerca della Sapienza che giova e che conduce a Dio.
Anche nelle iniziative di proselitismo verso i musulmani si dovrebbe innanzitutto coltivare la strada verso l’eccellenza nella fede che significa costruire sulla roccia e non sulla sabbia.
I cervelli non mancano e spero che si possa arrivare a costruire una rete degli e delle intellettuali musulmani/e per rovesciare la narrativa che ci vede marginali nel discorso pubblico e tra gli intellettuali, oltre che ostaggi involontari e ribelli di una visione neocoloniale del mondo che non vogliamo accettare.