Forse un bel grazie a Silvia Aisha Romano lo dobbiamo dire, perché ci ha aperto un mondo, un mondo fatto di impressioni e segni che ora diventano plasticamente realtà.
Sapevamo che i musulmani in Italia avevano e hanno tanti nemici, gente che grazie a noi campa, che fa di tutto per diffamarci, che pubblica sui soliti giornali di centro-destra, questo lo sapevamo.
Non ci aspettavamo di trovarli anche sul Corriere della Sera, tra i docenti universitari che si occupano di Islam, e neppure tra le nostre fila, tra musulmani come noi, che come noi, pregano cinque volte al giorno e digiunano a Ramadan, persone che spesso conosciamo di persona.
Il hijab di Silvia Aisha ha generato un’assurdo scalpore e quel che più mi ha stupito non sono le critiche dei non musulmani, di quelli che svolgono la loro attività politica e giornalistica attaccandoci per fare soldi e carriera. Quello che più mi ha stupito sono state le critiche dei musulmani e delle musulmane che hanno scelto di togliere il hijab, che si sono dichiarate offese dalle parole di Silvia Aisha.
Le critiche a Silvia Aisha le hanno rivolte anche quelli che 2 giorni prima osannavano il hijab di Farzana Hussain.
Certo la dottoressa Farzana andava bene perché è apparsa su un maxi schermo a Piccadilly Circus, mentre Silvia Aisha ha turbato la quiete di alcuni musulmani italiani e ha messo in luce il senso d’inferiorità di molti di noi; una patologia dei colonizzati.
Molti hanno avuto l’ardire di criticarla, soprattutto musulmani autoproclamati laici che non capiscono un bel nulla di diritto, libertà e laicità, ma per cui l’importante era dare contro ad una ragazza che ha fatto una scelta di vita controcorrente.
Più e più volte nei meeting dove sono invitato ho parlato del hijab, ben oltre l’aspetto religioso, mi sono soffermato sulla persona, sulla sua spiritualità, la sua emotività, la sua soggettività.
Peccato però che la polemica su Silvia Aisha abbia preso il posto di un dibattito che poteva essere interessante. Ma questa era solo l’antipasto della reazione che avrebbe scatenato una sentenza dell’alta corte turca: Aya Sofia, una ex moschea diventata museo per volere del fanatismo ateo, tornava ad essere moschea per ragioni squisitamente giuridiche e non per un diktat politico.
Mi stupisce che si critichi che un ex luogo di culto torni ad essere luogo di culto soprattutto se come riportato subito da Ilmfeed Travel, canale instagram che parla di Storia islamica, l’ingresso ad Aya Sofia sarebbe rimasto libero per tutti e per giunta senza più la necessità di pagare un biglietto d’ingresso.
Nel frattempo nel mondo le moschee vengono trasformate in pub come in Cina e nessuno si lamenta, ma se Aya Sofia torna alla funzione che ha avuto per 500 anni, apriti cielo, critiche trasversali, ma soprattutto critiche dai compagni di strada del dialogo interreligioso, con alte grida… “al lupo al lupo, mamma li turchi, o addirittura “regime regime ”.
Qualcuno mi vuole spiegare che dittatore è quello che consente il regolare svolgersi di elezioni nel suo Paese e perde anche nelle città più strategiche. Ultimamente non capisco il concetto di democrazia che ha la gente.
Mi ha colpito l’Arcivescovo Ortodosso d’America Elpidophoros che ha subito twittato contro la riconversione in moschea di “Hagia Sofia” come segno della fine dell’epoca di Ataturk.
Ma subito dopo ha twittato nuovamente che si che augurava la riapertura di Aya Sofia come moschea non segnasse la fine dell’Ecumenismo turco e il rispetto per le minoranze cristiane in Turchia.
La vicenda di Aya Sofia ha rivelato le vere intenzioni di molti che giocavano a fare gli amici dei musulmani e che per una questione di politica estera, hanno subito dato di matto, come se fossimo prossimi ad una nuova Lepanto.
Non tutto il male vien per nuocere, ci è servito per capire bene chi è davvero nostro amico e chi invece no.