L’immagine di Chiara Ferragni viene usata come testimonial del Museo degli Uffizi e subito scoppia un entusiasmante dibattito tra elitisti, che ritengono blasfema l’idea di associare un’icona pop contemporanea alla sacralità del nostro passato artistico, e “democratici”, che invece difendono un tale accoppiamento tra bellezza museale e commerciale. L’effetto tangibile di questa diatriba è che la pubblicità ha funzionato, sia per la regina di instagram, sia per il regno della perduta bellezza. La polemica d’altronde è da sempre un eccellente detonatore della pubblicità mediatica. Ma sotto la facciata provocatoria, risiedono altri aspetti interessanti di cui tener conto.
Per prima cosa è evidente come i musei inizino a risentire (finanziariamente) della mancanza dei loro principali fruitori. Che non sono gli appassionati d’arte, gli esteti o addirittura gli artisti, ma le scuole e i turisti. Sarebbe sufficiente questa constatazione per lasciar sprofondare nella loro depressione i cosiddetti elitisti, che dovrebbero forse identificare il nemico non nella Ferragni, ma nella concezione e fruizione dell’arte museale.
Insomma chiunque tra noi ha visitato un museo, ma quasi sempre vestito da alunno o da turista.
Infatti la visita museale, col passar del tempo, è diventata un divertimento obbligato del turista, un luogo fondamentale che finisce col completare lo spazio da cartolina di una città, insieme alla stanza di un albergo, la trattoria con menù turistico e le strade monumentali, che da luogo di vita pubblica, sono diventate una enorme manifestazione pubblica, prive di un reale evento. Dopo una normale visita agli Uffizi o ai musei Vaticani, è facile rendersi conto che la maggior parte della percezione turistica è stata impegnata dalle sollecitazioni offerte dagli altri confratelli visitatori; di lato, dietro, davanti, dappertutto arrivano i volti e le voci degli altri, che si interpongono tra volti rinascimentali e altre sublimazioni di diverse età.
Allo stesso tempo il museo si è ormai consolidato come imprescindibile esperienza educativa: ricordo personalmente le strazianti passeggiate, trascorse come alunno, lungo gli infiniti corridoi di un museo. L’interesse personale e medio dell’adolescente era rivolto ai lineamenti di una compagna attraente o all’impellente necessità di dare uno schiaffo a un compagno. Da metà visita in poi, il pensiero andava poi soltanto alla pausa pranzo, che come giusto contrappeso, doveva basarsi sulla consumazione del cibo più grossolano possibile. Al di là di questo, credo che raramente una visita museale abbia lasciato tracce di folgorazione estetica nello sguardo di uno studente, tranne forse in quelli dall’abbigliamento e dall’animo propedeutici alla musealità, che erano per definizione già al di fuori del loro tempo.
Dopo questa breve descrizione forse comprendo meglio il disappunto degli elitisti: nel momento in cui un virus finalmente era riuscito a spazzare via dalle stanze dell’arte gli sciami annoiati di scolaresche e i passi stupefatti di turisti lowcost, si fa strada un nuovo e serio rischio: una neo-specie di fruitori, assiepati di fronte al Botticelli o a Piero Della Francesca, per farsi selfie nel luogo in cui è stata il loro idolo influenzante.
Dall’altra parte si agitano invece i “democratici”, fautori della diffusione universale della cultura e della relativizzazione dei codici estetici; se la Ferragni rappresenta l’ideale di bellezza in quest’era, perché non associarla alla bellezza rinascimentale? E soprattutto perché non usarla come amo per i giovani, elevando il loro spirito attraverso il contatto con l’antico splendore?
Meglio lasciar inevase tali questioni e piuttosto interrogarsi su quale sia il reale senso, o quantomeno la funzione di un museo. Di sicuro un museo è l’archeologia di una civiltà, o meglio la ricostruzione esteticamente depurata, dello sguardo di epoche ormai scomparse. Come ogni contenitore d’arte, dovrebbe esser raggiunto da chi è mosso da un reale desiderio o addirittura necessità. Invece nel tempo l’aggettivo museale ha finito col connotare qualcosa di negativo, di statico, ridondante, più vicino alla morte che alla vita: insomma l’esatto contrario dell’essenza dell’esperienza artistica.
Non c’è una sostanziale differenza qualitativa tra le masse di visitatori di un museo e quelle di un centro commerciale. Permane un’unica differenza dietro lo sguardo gettato attraverso le vetrine dell’arte, che mira ad acquistare una merce più astratta: un po’ di bellezza e soprattutto una sensazione di elevazione culturale.
Se allora il museo può esser anche considerato come l’obitorio dell’arte, bisogna ammettere che al suo interno non stona per nulla il volto della Ferragni, come natura morta della femminilità. Quello stesso volto che può esser visto come una propagazione del neo sul volto della Monroe, ritratto da Wahrol, e diventato icona per eccellenza della pop art. D’altronde era già tutto scritto e prevedibile: evviva quindi la Ferragni agli Uffizi e in tutti i musei d’Italia, futura archeologia dell’estetica propria alla civiltà di instagram.