Israele vuole cancellarci con tutti i mezzi: la testimonianza di una giornalista palestinese

Israele vuole cancellarci con tutti i mezzi, noi palestinesi abbiamo resistito all’occupazione e alla colonizzazione israeliana per decenni. Ma l’annientamento è ancora una minaccia incombente

Nonostante l’infuriare della pandemia e le sempre crescenti restrizioni ai movimenti dei palestinesi, io e qualche amico riusciamo occasionalmente ad incontrarci e a recuperare il tempo perduto. 

Mentre siamo seduti, bevendo tè e caffè, il mio telefono vibra per i continui aggiornamenti inviati da giornalisti, attivisti e amici relativi al crescente numero di contagiati e agli sviluppi dei piani di annessione israeliana. 

Leggo uno dopo l’altro messaggi deprimenti, e i volti che mi circondano si svuotano. Queste riunioni occasionali, fatte per distrarci dalla soffocante vita in una pandemia e in una occupazione, spesso sprofondano nell’ umore quasi sempre cupo che domina l’esperienza palestinese. 

Anche se non sappiamo cosa accadrà fra poco, abbiamo molta paura che ciò che accadrà possa essere pericoloso. Ogni tanto ci chiediamo l’un l’altro, “pensi che sopravviveremo a quello che accadrà?”  

Sappiamo che qualcuno di noi non ce la farà.

Questo ci viene costantemente ricordato. Il 23 giugno, il ventisettenne Ahmed Erakat, è stato freddato in un checkpoint israeliano nei pressi di Betlemme. Due settimane più tardi, i soldati israeliani, a Salfit in Cisgiordania, hanno ucciso, sparandogli, il ventinovenne Ibrahim Abu Yacoub. In un’occupazione col grilletto facile, nessuno di noi è al sicuro. 

Mentre i media internazionali ridondano di ipotesi circa l’intenzione di Israele di annettersi formalmente parti della Cisgiordania, e i governi del mondo intero stanno preparando le ennesime inutili dichiarazioni contro Israele, noi in Palestina ci chiediamo a quanta altra annessione potremo sopravvivere. 

Un’annessione lunga decenni

Per decenni, prima che il primo ministro Benjamin Netanyahu facesse la sua dichiarazione ufficiale di annessione delle terre palestinesi, abbiamo sperimentato una permanente annessione.

Gli insediamenti illegali israeliani sorgono così rapidamente, che si penserebbe che siano stati costruiti durante la notte. E con la stessa velocità continuano ad espandersi, insinuandosi sempre più vicino ai nostri villaggi e alle nostre città. 

“Quando ha potuto questo insediamento farsi così vicino? Posso vedere dentro alle case!” è diventato un ricorrente ritornello in tutta l’occupata e colonizzata Cisgiordania. 

“Non hanno mai costruito insediamenti provvisori,” mi ha detto una volta un amico di Gerusalemme. 

Parallelamente, i posti di blocco israeliani si sono moltiplicati in tutta la Cisgiordania con l’intento di proteggere le attività legate alla colonizzazione. “Posti di blocco volanti” presidiati da soldati israeliani su veicoli blindati possono sporadicamente comparire e sparire, impedendo ogni passo al movimento dei palestinesi, procurando danni per milioni di dollari all’economia palestinese. Per percorrere, per esempio, i venticinque chilometri fra Ramallah e Betlemme, per un palestinese ci possono volere ore. 

Ci sono anche altri posti di blocco permanenti, come il famigerato Qalandia, che separa Gerusalemme dalla Cisgiordania e attraverso il quale i palestinesi possono accedere, se ne hanno il permesso, al resto della storica Palestina (oggi Israele). Nel 2019, gli israeliani hanno aggiunto una massiccia struttura al posto di blocco. Poco tempo dopo, sono passata per la prima volta attraverso il checkpoint Qalandia. Quando l’ho visto sono rimasta a bocca aperta. Più che un posto di blocco, sembrava il terminal di un aeroporto. 

Mi sono ricordata di come, non molto tempo fa, stavamo protestando davanti alle sparse strutture di cemento e alle barriere di metallo, ricevendo colpi di arma da fuoco con proiettili veri. 

Quella che ho visto nel 2019 era un’imponente costruzione con porte elettroniche, videocamere di sorveglianza e soldati israeliani seduti dietro ampie finestre di vetro, che abbaiavano ordini: “Vai avanti, vieni più vicino, puoi entrare, non puoi, devi essere controllata!”

Oltre ad averci tolto la libertà di muoverci all’interno della Cisgiordania, Israele ha anche sequestrato la nostra libertà di andarcene. Il ponte di Allenby, che unisce la Cisgiordania alla Giordania, una volta aveva la funzione di provvisorio passaggio umanitario. Oggi è il solo porto di entrata/uscita per i palestinesi della Cisgiordania ed è gestito dalle autorità aeroportuali israeliane, che possono rifiutare ai viaggiatori palestinesi il diritto di partire.   

Un popolo palestinese diviso

La popolazione palestinese sta affrontando divisa l’incombente annessione, non solo politicamente e geograficamente, ma anche nella sua esperienza dell’occupazione. I palestinesi dell’area C – di fatto sotto il controllo israeliano- o di Gaza hanno una realtà diversa da quelli che risiedono nell’area A o B. 

Vivendo a Ramallah, so che la minaccia di espulsione imminente è meno pressante di quella dei palestinesi che vivono nell’area C o a Gerusalemme est, che sono regolarmente sfrattati dalla loro terra e le loro proprietà sono confiscate per far posto ai coloni israeliani. So anche che, a differenza dei palestinesi di Gaza, sono al sicuro dai bombardamenti israeliani, perché la Cisgiordania pullula di coloni e di insediamenti israeliani. Il bombardamento non è un’opzione praticabile.  

Preservare la mia identità e il carattere palestinese del mio ambiente circostante è relativamente più facile di quanto non sia per i palestinesi con cittadinanza israeliana. La cancellazione sistematica alla quale essi devono far fronte all’interno dello stato di Israele si associa ad un ampio repertorio di leggi, che garantiscono il loro essere cittadini di serie b.  

Vivere a Ramallah significa anche che non devo far fronte all’ostilità di una nazione ospitante, che mi nega il diritto al lavoro o all’assistenza sanitaria, come milioni di palestinesi profughi in paesi arabi. Vivere a Ramallah significa anche non sperimentare la discriminazione che affrontano i palestinesi che vivono in Occidente. 

Tuttavia, anch’io affronto la violenza dell’occupazione e la precarietà di essere palestinese in questo mondo.

Se casualmente non mi spareranno in un posto di blocco, la mia casa può sempre essere improvvisamente invasa per il capriccio di un qualsiasi funzionario israeliano, o attaccata dai coloni che circondano il nostro villaggio. E se nulla di questo accade, allora l’Autorità Palestinese (AP) potrebbe decidere che costituisco una minaccia politica e arrestarmi. 

In questo senso l’annessione sarà sentita in modo diverso dalle differenti comunità palestinesi. E questo è probabilmente quello su cui conta l’occupante- che divisi nelle nostre esperienze, non saremo capaci di essere uniti nella nostra risposta. 

Sfinimento economico 

Molti palestinesi vivono in tale miseria a causa dell’occupazione e della loro espulsione dalle loro terre, che la loro principale preoccupazione è la sopravvivenza fisica. Questo indebolisce ulteriormente la loro capacità di mobilitarsi politicamente.

Il protocollo di Parigi del 1994, inteso come misura provvisoria, ha nei fatti garantito l’insicurezza economica dei palestinesi grazie al suo modello di “unione doganale” e ha reso l’economia palestinese dipendente da Israele, permettendo così a Israele di controllare la resistenza Palestinese.  

In Cisgiordania e a Gaza, centinaia di migliaia di famiglie dipendono dai salari della AP, la quale a sua volta dipende da Israele per permettere il trasferimento del suo bilancio e per permettere alle donazioni dei suoi amici occidentali di sostenerlo. Il settore privato è completamente dominato e dipendente dall’economia israeliana e dalla sua misericordia politica. Le chiacchiere della AP circa “il disimpegno economico” da Israele sono semplicemente ridicole. 

I palestinesi che non possono guadagnarsi da vivere nelle sottosviluppate Cisgiordania e Gaza sono obbligati a cercare lavoro in Israele, dove sono pesantemente sfruttati e lasciati all’arbitrio dei loro datori di lavoro. Affrontano il rischio di veder revocati i loro permessi di lavoro se loro o i loro parenti mostrano un qualsiasi segno di resistenza politica. 

Dopo 13 anni di assedio militarmente imposto, supportato dall’Egitto e dalla AP, e dopo numerosi assalti omicidi israeliani, Gaza è una catastrofe umana vivente. La striscia è invivibile e la sua economia è a pezzi. Lì la popolazione palestinese è abbandonata in una permanente crisi economica, sanitaria, nutrizionale e igienica. Nei paesi arabi confinanti, i profughi palestinesi riescono a stento a sopravvivere. 

L’occupante spera di ridurci all’apatia. Ma per ogni evenienza, ha anche messo in campo forza militare, oppressione politica e controllo. 

Resistere all’occupazione e ai suoi sostenitori  

La resistenza palestinese ha più di 100 anni. Abbiamo combattuto contro l’impero Britannico, il colonialismo israeliano e la complicità internazionale con i crimini israeliani. 

Come palestinesi, abbiamo cercato di fermare la colonizzazione israeliana delle nostre terre con ogni mezzo a noi disponibile. 

Abbiamo provato con la resistenza armata, e abbiamo incontrato la brutale risposta di un esercito nucleare; abbiamo tentato di protestare pacificamente e ci hanno sparato addosso, ci hanno arrestato e torturato; ci siamo appellati alle leggi e alle istituzioni internazionali e siamo stati fermati dalla prepotenza diplomatica americana e israeliana; abbiamo anche cercato di promuovere un boicottaggio non-violento, movimento di disinvestimento e sanzioni (BDS), che è stato brutalmente attaccato con varie leggi tese a criminalizzarlo come “anti-semita”. 

Non c’è nulla che sul terreno abbia funzionato per i palestinesi. Nulla ha fermato l’annichilimento israeliano dei nostri diritti e il furto della nostra terra. Siamo stati abbandonati dai governi amici e dagli alleati arabi, mentre la comunità internazionale ha continuato ad essere complice dei crimini israeliani. 

Oltre al colonialismo israeliano, dobbiamo anche affrontare l’autoritarismo della nostra dirigenza palestinese. L’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza hanno deliberatamente represso la nostra capacità di mobilitarci imprigionando gli attivisti politici, reprimendo violentemente la protesta, e convogliando sempre più risorse verso le loro forze di sicurezza piuttosto che verso lo sviluppo e l’emancipazione della comunità.  

In queste condizioni, un sollevamento di massa simile a quello del 1987 o del 2000 sembra improbabile. Israele ha imparato la lezione e ha lavorato duramente per minare la nostra capacità di mobilitare le masse. 

Ciò, naturalmente, non significa che non resisteremo. La Grande Marcia del Ritorno del 2018 ha dimostrato agli israeliani e al mondo che possiamo farlo e che marceremo per i nostri diritti anche se le pallottole ci piovessero addosso. Le proteste di Al-Aqsa del 2017 hanno dimostrato che possiamo mobilitarci in ogni momento senza o addirittura nonostante le fazioni politiche palestinesi. La ricostruzione dei beduini di Araqib delle loro case dopo che erano state abbattute dai bulldozer israeliani 173 volte mostra che possiamo perseverare.

La resistenza molto probabilmente sarà condotta a livello di comunità. Gli abitanti della valle del Giordano hanno già giurato che rimarranno nella loro terra, qualsiasi cosa accada.  

Ammetto che con tutto quello che succede in Palestina, la libertà sembra essere sempre più lontana. L’esperienza di viaggiare fra città e villaggi palestinesi in Cisgiordania, e osservare quanto evidente è diventata la violenza dell’occupazione nell’appropriarsi di quel poco che è rimasto della Palestina, spezza il cuore.   

Penso a città come Yaffa, Safad e Haifa. Erano anch’esse città palestinesi e ora quasi nessuno lo ricorda. Sono state annesse, israelizzate, la loro popolazione palestinese etnicamente ripulita, il loro carattere e il loro aroma palestinese completamente cancellati. 

Posso vedere lo skyline di Tel Aviv dal mio balcone e mi chiedo se Ramallah si sveglierà un giorno nei nuovi e sfarzosi edifici di una città coloniale europea, vigorosamente sanificata e ripulita dalla sua anima palestinese (Palestinità, ndt),  e mi chiedo anche se sopravviverò alla violenza che questo processo comporterà. 

Articolo di Mariam Barghouti pubblicato su www.aljazeera.com