Martedì scorso i nomi delle 171 persone (alcune decine sono ancora disperse) che hanno perso la vita nell’esplosione al porto di Beirut sono stati letti davanti ad una moltitudine di manifestanti in Piazza dei Martiri che inalberavano i ritratti delle vittime e chiedevano a gran voce le dimissioni del Presidente Aoun e di tutto il governo della Repubblica dei Cedri.
Significativa un’immagine del presidente con la scritta HE KNEW (lui sapeva), l’agenzia Reuters aveva infatti riferito che nel mese di luglio la presidenza e il governo erano stati informati dell’altissimo rischio costituito da quel deposito che conteneva 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio.
Nelle primissime ore successive all’esplosione Aoun aveva promesso che in 5 giorni sarebbero state date risposte certe al Paese: cos’era successo veramente? Chi erano i responsabili?
La mesta cerimonia ha fatto seguito alla “giornata della rabbia” di sabato scorso che ha registrato duri scontri tra manifestanti e polizia causando un’altra vittima e centinaia di feriti (238 secondo alcune fonti).
La gente aveva assalito le sedi di diverse istituzioni governative tra cui il ministero degli Esteri e distrutto immagini del presidente gridando lo slogan “Vai via! Vai via!” Attaccati anche i dicasteri dell’Ambiente, dell’Energia e dell’Economia. Diversi edifici e mezzi sono stati dati alle fiamme nelle piazze centrali della città, invasa e semidistrutta la sede dell’associazione delle banche.
Tra le figure che erano state accusate di responsabilità anche quella di Hassan Nasrallah leader di Hezbollah, un manichino con le sue sembianze è stato esposto con un cappio al collo. Questo fatto ha suscitato le reazioni delle milizie del suo partito che sono scese in strada nel centro città, dal vicino quartiere di Zoqaq al Blatt in segno di protesta. L’esercito libanese si è frapposto e ha respinto l’assalto sul Ring, la sopraelevata che si affaccia su Piazza dei Martiri.
Lunedì il governo Diab si è dimesso consegnando alla piazza e ad una parte delle cancellerie straniere la sua incapacità ad affrontare la situazione.
Sullo sfondo un’architettura istituzionale, che risale ad una convenzione costituzionale siglata informalmente come “Patto Nazionale” (al-mīthāq al-watanī) nel 1943, che integra o interpreta la costituzione del 23 maggio 1926 che sancisce che le più alte cariche dello Stato siano assegnate ai tre gruppi principali:
il Presidente della repubblica dev’essere un cristiano maronita, il primo ministro musulmano sunnita, il presidente del parlamento musulmano sciita.
Gli accordi di Ta’if del 1989 che riuscirono a far concludere nell’anno successivo la guerra civile libanese non modificò questo sistema. Esso prevedeva anche il disarmo di tutte le milizie libanesi, sia cristiane che musulmane. Nell’ottobre dello stesso anno il gen. Michel Aoun, cercò di applicarlo, e di estendere il controllo dell’esercito alle regioni cristiane controllate dalle Forze Libanesi, con cui si scontrò sul terreno, anche le milizie sciite di Hezbollah rifiutarono di smobilitare.
Oggii è prevista una riunione straordinaria del Parlamento libanese, convocata dal suo presidente Nabih Berri e intanto gli attori internazionali sembrano volteggiare come avvoltoi su quel martirazzato Paese sperando, taluni di rafforzare la loro influenza e, altri, di acquisirla.