«Caio è un uomo; gli uomini sono mortali; dunque Caio è mortale», gli era parso, per tutta la vita, giustissimo quanto a Caio, ma non davvero quanto a sé stesso. Quel Caio, sì, era un uomo, un uomo e nulla più, e quindi la cosa non faceva una grinza; ma lui era non già Caio, non già un uomo e nulla più, ma era ed era sempre stato un essere completamente a parte, completamente diverso da tutti gli altri: era Vànja, lui, con la mamma, col babbo, con Mitja e Volòdia, coi giocattoli, col cocchiere, con la governante, poi con Katjegnka, con tutte le gioie e i dolori e gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza. Forse che per Caio esisteva quell’odore di cuoio della palla a spicchi, che a Vànja piaceva tanto?
(Lev Tolstoj, La morte di Ivan Ilich, capitolo VI)
Il romanzo La morte di Ivan Ilich, come Madame Bovary, è una storia di per sé banale. Se Madame Bovary è un’adultera nella Normandia ottocentesca, un personaggio raccontato con estremo realismo psicologico da quel maestro insuperabile che fu Gustave Flaubert, La morte di Ivan Ilich è la storia di una morte, la morte di un uomo.
Non solo il racconto dell’avvenimento finale, del momento che segna la fine, del fatto, dell’avvenimento in sé, e neppure dei lunghi mesi che vanno dall’esordio dei primi sintomi della malattia alla fine; ma di quel processo che vi conduce e che inizia con la nascita di un essere umano e che si sviluppa lungo tutto il percorso della vita; dall’infanzia al momento del trapasso. Perché questo è quanto Tolstoj ci dice con quella sua particolare perizia narrativa che ne ha fatto uno dei più grandi romanzieri di tutti i tempi, raccontandoci con questo suo romanzo breve la storia di un uomo qualsiasi, la storia di un funzionario della Russia zarista: ci dice che la morte e la nostra vita sono intrinsecamente, intimamente uniti.
Quella morte che attende alla fine del percorso ogni essere umano, che attende, ahimè costa dirlo, ognuno di noi. Cosa ci può essere di più banale di una morte, della morte di un uomo e della vicenda di una donna che per inquietudine, per l’insopportabile noia che in lei produce la vita nella profonda provincia francese si dà all’adulterio?
Da queste trame prive di ogni pretesa di originalità, Leone Tolstoj e Gustave Flaubert traggono due capolavori immortali; due romanzi che per profondità e acume psicologico sono tuttora quanto di meglio la letteratura occidentale abbia saputo produrre.
Ivan Ilich nasce bene; nasce nella classe dirigente della Russia zarista dell’ottocento. Il suo mondo è quello; la sua avventura spazio-temporale si sviluppa tra Pietroburgo e Mosca, quando la Russia era governata dagli zar e la rivoluzione bolscevica era di là da venire. Fin dal suo debutto nella vita adulta, non vi è nulla di particolare, nulla di notevole nell’esistenza di questo giovane uomo che lo segnali per qualche tratto originale.
Il giovane Ilich si iscrive all’università dove segue un percorso di studi giuridici, al termine dei quali sarà avviato ad una carriera di magistrato nello sconfinato territorio dell’impero zarista. La sua giovinezza scorre tranquilla, senza grossi scossoni, senza eccessi. Ivan non è un personaggio inquieto; non ha nulla dell’anima torbida, conflittuale di altri personaggi della letteratura russa dell’epoca: si pensi ad esempio al dostoevskiano Raskolnikov, o ad altri personaggi tolstoiani come Pierre Bešukov o il principe Nechljudov, protagonisti rispettivamente di Guerra e Pace e di Resurrezione.
Tolstoj ci racconta che sì, come spesso accade ai ragazzi, Vànja si lascia trascinare in qualche eccesso di cui magari dovrebbe vergognarsi, ma che poi la sua coscienza si acquieta pensando che in fondo una visita al bordello, una bevuta eccessiva, sono cose che più o meno tutti i giovani della sua età fanno senza gravi conseguenze, senza troppi affanni postumi. L’ideale di Vànja (Ivan), ideale che perseguirà per tutta la sua esistenza, non è un ideale eroico, ma piuttosto la ricerca di una borghese vita tranquilla, elegante, piacevole, lontana dagli eccessi: una vita comme il faut.
Il matrimonio arriva naturale al tempo della sua giovinezza, perché il nostro eroe pensa che nulla di sconveniente ci sia nel trovare moglie, ma anzi, sente che questa sua scelta sarà approvata dal suo mondo, dal suo entourage, e poi verranno i figli; alcuni di loro moriranno ancora piccoli, cosa abbastanza frequente all’epoca, quando la mortalità infantile era molto elevata, senza però che né lui né la moglie ne siano particolarmente turbati e alla fine ne resteranno due; un ragazzo e una ragazza. E ancora nella sua vita ci sono le piacevoli serate trascorse a giocare a Vint con amici e colleghi, un gioco di carte molto popolare fra il bel mondo russo dell’epoca; nella sua vita c’è la ricerca di sempre nuove promozioni sociali, di posti più prestigiosi e meglio remunerati perché i soldi, chissà poi perché, non bastano mai e con la ricerca delle soddisfazioni e delle promozioni carrieristiche arrivano anche inevitabili le frustrazioni e le delusioni, perché quel tal posto al quale tanto ambiva, è stato ingiustamente assegnato a quel collega che pareva perfino essergli amico.
E con la moglie poi, quella moglie che aveva sposato inseguendo quel suo ideale di tranquilla, piacevole vita borghese; quella ragazza che non era affatto brutta e che aveva portato una buona dote, dopo il primo parto si muta in una creatura esigente, petulante, capricciosa con la quale non di rado avvengono scenate sgradevoli; tutto questo così lontano da quella vita che avrebbe voluto per lui, una vita comme il faut. E allora Ivan si adatta al compromesso, non cercando con la moglie una comunione spirituale che avverte come impossibile, ma stabilendo un armistizio dove tutto si acquieterà in una situazione di tregua, di patto di non aggressione, di sostanziale non amore.
Sempre perseguendo questo suo ideale di piacevole eleganza e di rispettabilità Ivan si mette, nel tempo libero, ad arredare la nuova casa dove con la famiglia si era trasferito in seguito ad una promozione di carriera tanto agognata quanto ormai inaspettata. Quella casa la vorrebbe elegante, originale e allora si dedica con attenzione e con puntiglio alla cura dell’arredamento, alla ricerca del mobile giusto, del soprammobile adatto, del tendaggio perfettamente in tono. La casa, la nostra dimora ahimè, che tutti vorremmo unica e originale, ma che poi, per quanto ci si scervelli e ci si adoperi, finisce per assomigliare terribilmente a tutte quelle altre dove abitano le persone che appartengono al nostro mondo, al nostro stesso ceto sociale, che pensano più o meno come noi, che vivono come noi.
La malattia, Vànja se ne rammenterà, si insinua in lui proprio cercando la perfezione e l’originalità dell’arredamento, quando dopo esser salito su una scala per sistemare una tenda, scivola e urta col fianco uno spigolo. La malattia è un crescendo, inizia impercettibile, senza dar segno di sé, e cresce pian piano, silenziosa nel corpo di Ivan Ilich. I primi segni sono vaghi; un disturbo, un sapore sgradevole in bocca, un senso di pesantezza al fianco. Passano i giorni, le settimane, i mesi e quei sintomi vaghi si sono trasformati in un dolore sordo e insopportabile al fianco, in un sapore orribile che gli impedisce di gustare il cibo.
Si insinua allora in lui dapprima insopprimibile l’illusione della guarigione; guarigione perseguita ricercando celebrità mediche che nonostante un ottimismo finto e di maniera, presto si rivelano incapaci di trovare rimedio ad una situazione sempre più evidentemente irrecuperabile; celebrità mediche che si affannano a produrre diagnosi improbabili e cervellotiche: un rene mobile, un grumo nell’intestino cieco.
La verità in lui si fa strada chiara e ineludibile: la morte ha preso possesso del suo corpo e non c’è nulla che abbia il potere di scacciarla; non i farmaci, non le menzogne delle persone che lo circondano, della moglie in primis, ma anche dei figli, degli amici e dei colleghi, che lo trattano come se fosse solo un bambino indisciplinato e bizzoso, che gli dicono melliflui che se prendesse le medicine con regolarità e non facesse i capricci guarirebbe.
Il dramma di Ivan Ilich è il dramma della sua morte, certo, ma è soprattutto il dramma dell’insincerità, dell’ipocrisia che lo circonda, perché quella catastrofe che avviene nel suo corpo ha però il merito di rivelargli la menzogna nella quale tutta la sua vita è stata vissuta, ché pensandoci bene, vede solo nell’infanzia un mondo lontano e luminoso, ormai perduto. Solo in Gherassim, un giovane e forte servo di origine contadina, che unico sarà capace di alleviare le sue sofferenze con la forza e la dolcezza di una pietà naturale, Ivan Ilich trova conforto.