Qualcuno ha scritto che accordo Israele/EAU strombazzato in prima persona da Trump è arrivato come un fatto imprevisto nel complesso gioco politico del Medio Oriente Invero era una relazione semi clandestina, come hanno commentato taluni analisti: “erano amanti da tanto tempo ora hanno deciso di sposarsi”
Ma di che cosa ci si scandalizza? Innanzitutto la maggior parte dei paesi arabi hanno da tempo normalizzato, in una maniera o nell’altra, le relazioni con Israele. Forse oggi rimane solo il Kuwait ad avere un atteggiamento di rifiuto nei confronti dello Stato sionista. Quanto agli Emirati siamo davvero al paradosso: si tratta dell’entità statale che è quasi del tutto controllata da Tel Aviv, dal punto di vista militare e politico, il fatto che ci sia un mutuo riconoscimento formale è sostanzialmente ininfluente.
Fin dall’iniziativa araba per la pace nota anche come “Iniziativa saudita”, una proposta di 10 punti per porre fine al conflitto arabo-israeliano che fu approvata dalla Lega Araba nel 2002 al vertice di Beirut e ribadita del 2007 e del 2017 era prevista l’accettazione dello Statto sionista sulle frontiere del ’48. Essa prevedeva infatti la normalizzazione delle relazioni tra il mondo arabo e Israele, in cambio del pieno ritiro dai territori occupati (Cisgiordania, Gaza, le alture del Golan e il Libano), un “giusto insediamento” dei profughi palestinesi in base alla risoluzione 194 delle Nazioni Unite e la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale.
Parlando a 22 capi di Stato arabi, l’allora re Abdellah dell’Arabia Saudita disse:
“Nonostante tutto ciò che è accaduto e ciò che può ancora accadere, il problema principale nel cuore e nella mente di ogni persona nella nostra nazione islamica araba è il ripristino dei diritti legittimi in Palestina, Siria e Libano … Ma crediamo anche nella pace quando si basa sulla giustizia e l’equità e quando pone fine al conflitto. Solo nel contesto di una vera pace possono fiorire normali relazioni tra i popoli della regione e consentir loro di perseguire lo sviluppo piuttosto che la guerra. Alla luce di quanto sopra, e con il vostro appoggio e quello dell’Onnipotente, propongo che il vertice arabo proponga un’iniziativa chiara e unanime rivolta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite basata su due questioni fondamentali: relazioni normali e sicurezza per Israele in cambio per il completo ritiro da tutti i territori arabi occupati, il riconoscimento di uno stato palestinese indipendente con al-Quds al-Sharif come capitale e il ritorno dei rifugiati”.
Non avvenne niente di tutto ciò, anzi è successo che i regimi arabi abbiano comunque, in grande maggioranza, normalizzato le relazioni con Israele senza ottenere nulla: nè il ritiro dai territori occupati, né lo smantellamento degli insediamenti illegali, né la cessazione dell’assedio di Gaza, né il ritorno dei rifugiati, niente di niente. Anzi la situazione dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania non ha fatto che peggiorare.
La decisione emiratina non è solo di una scelta dettata dalla debolezza intrinseca che l’accomuna a tutte le altre petromonarchie del Golfo. Mohamed Bin Zayed è un uomo ambizioso e coltiva un progetto di egemonia su una parte della penisola arabica. Vittime di questo progetto sarebbero lo Yemen il cui Sud è già controllato dalle sue truppe e un altro alleato di Israele: l’Oman. Acclarare la relazione con Tel Aviv lo rafforza nella percezione del sistema di alleanze che sostiene Israele.
Il gioco politico-diplomatico di Israele si delinea meglio in questa fase.
Non sembrava infatti del tutto credibile che Tel Aviv volesse davvero annettere i territori che chiamano Galilea e Samaria. E’ stata quindi una manovra ben orchestrata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu per ottenere nelle prossime elezioni quel consenso che al momento non ha in parlamento e che rende molto difficile il proseguimento la sua leadership.
Normalmente in questi casi i primi ministri israeliani bombardano Gaza con una scusa o con un’altra. Le conseguenze di queste azioni sono tuttavia politicamente impegnative da gestire, anche per una certa crescente opposizione interna nel Paese. In questo caso Netanyahu vuole presentarsi come quello che ha ridotto ulteriormente il numero dei nemici di Israele. Va da sé che l’Arabia Saudita non lo è più, e neppure il Sudan che aveva tenuto botta per molto tempo. Distrutti anche i potenziali offensivi (e difensivi) di avversari come l’Iraq e la Libia di Mu’ammuar Gheddafi, ridotta in macerie e spopolata la Siria, non rimane quasi nulla che possa davvero impensierire Israele e il suo complesso militare industriale.
Altro vantaggio che Israele incasserà dall’accordo è la possibilità di rifornirsi delle materie energetiche allocate negli Emirati, tra le meno costose del mondo.
Sullo sfondo è anche da valutare la posizione iraniana i cui governi non smettono di considerare l’opposizione a Israele uno dei capisaldi della loro politica estera e della relazione con l’insieme delle masse musulmane. E’ indubbio il sostegno militare e finanziario che l’Iran ha dato alla resistenza palestinese (senza tuttavia mai metterla in condizione di colpire davvero in modo pesante l’assediante), ma è anche vero che se la Rivoluzione Islamica ha potuto sopravvivere economicamente a questi anni di embargo è in gran parte perché ha avuto il supporto emiratino e attraverso lo stretto di Ormuz le è arrivato tutto quello che il boicottaggio gli avrebbe interdetto.
Inoltre, le banche degli emiri hanni riciclato il denaro che l’Iran non avrebbe potuto ricevere in altro modo per le sue vendite di petrolio in violazione dell’embargo USA.. e anche questo getta una luce significativa sugli intrecci della politica mediorientale che spesso sfugge alla comprensione generale.
Perché proprio ora?
La tempistica è il risultato di tre debolezze.
Quella strutturale degli EAU, un Paese grande un quarto dell’Italia, la cui popolazione, meno di 10 milioni di persone, è costituita al 90% da stranieri. Impelagato in Yemen e in teatri anche lontani dai suoi confini (vedi Libia).
Quella politico-giudiziaria di Benjamin Netanyahu, senza una maggioranza valida nel suo parlamento e con una accusa che gli pende sulla testa. Il premier spera negli investimenti emiratini in Israele e il via libera alle esportazioni di armi senza dover compiere giri costosi e talvolta perigliosi.
C’è da dire inoltre che una parte considerevole delle derrate alimentari che si consumano negli emirati proviene da Israele e in particolare dalle colonie illegali in Cisgiordania, con la complicità della Giordania, che con un cambio d’etichetta e di dicitura nelle polizze di carico, “arabizza” il prodotto sionista e lo rende lecito in EAU.
Anche in questo caso l’importazione diretta abbassa il costo finale, o permette margini di guadagno più alto agli importatori emiratini.
Anche il mercato saudita, dal canto suo, grazie alla zona di libero scambio tra i due Paesi godrebbe in modo importante di questo vantaggio.
La terza debolezza è quella di Donald Trump che sta cercando ossessivamente di risalire nei sondaggi (+9 per Biden) che lo danno perdente nelle prossime elezioni presidenziali, contando sull’appoggio della lobby sionista.
Le prospettive e le reazioni palestinesi
A poche ore dell’accordo in una conferenza stampa, il premier israeliano ha ribadito che “nessun insediamento sarà smantellato, la Samaria è terra sacra donata da Dio al popolo d’Israele”.
Quindi niente di nuovo nell’atteggiamento di Tel Aviv, come c’era del resto da aspettarsi.
Argomentando in termini generali Abdallah al Nafissi, cattedratico e uomo politico del Kuwait ha messo in rilievo l’incongruità di una trattato di pace tra due Paesi che non erano mai stati in guerra tra loro, che non hanno controversie di frontiera o altri contenziosi.
Secondo Al Nafissi, nei confronti di un occupante non è lecito un trattato di pace finchè i diritti lesi non siano stati ripristinati o compensati, al massimo è possibile una hudna (tregua).
Condannando l’accordo concluso, che ha definito una “coltellata alla schiena”, il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha ribadito la volontà di continuare la resistenza, ma sta di fatto che oramai oltre al sangue dei suoi figli la Palestina non ha più niente da mettere sul tavolo negoziale e quasi più nessun alleato.
Secondo taluni analisti palestinesi l’unica istanza che potrebbe ripristinare un minimo di speranza nel breve e medio termine è l’Unione Europea, ma tenendo conto delle posizioni dei suoi azionisti di maggioranza, che vanno dal sostegno inverecondo di ogni decisione israeliana, all’indifferenza e fino a qualche timido rifiuto dell’ingiustizia generale che soffre in popolo palestinese, non crediamo che si possa andare oltre ad iniziative umanitarie che non risolverebbero comunque il problema di fondo.
Intanto giungono notizie che si sta già cercando il luogo dove realizzare l’ambasciata EAU a Tel Aviv e si stanno programmando i voli Emirates e El Al tra i due Paesi, sembra infatti che molti uomini d’affari israeliani fremano dal desiderio di recarsi a Dubai e Abu Dhabi e ci sono emiratini che sognano di andare a scialarsi sulle spiagge di Betzet e Achziv.