Alla fine gli elettori voteranno nel merito del quesito, e non basandosi su ipotetici governi a venire o riforme a seguire. Ed è giusto che sia così. Perché qui si tratta di un referendum, vale a dire uno strumento di democrazia diretta in un contesto istituzionale basato sulla democrazia rappresentativa.
E dunque: si o no a che cosa?
A un testo di legge che modifica alcuni articoli della Costituzione e si intitola “Modifiche degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”.
Un titolo brutto, triste e burocratico, che non contiene alcuno slancio simbolico né alcun riferimento a ciò che dalla legge ci si aspetta.
Pensiamo a titoli di leggi che hanno avuto un impatto politico, sociale e culturale sul nostro paese: “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri” (l.860 del 1950); “Istituzione ed ordinamento della Scuola Media Statale” (l.1859/62); “Istituzione del servizio sanitario nazionale” (l.833 del 1978); “Ordinamento delle autonomie locali” (l.142/90); “Disposizioni per il sostegno della maternità e paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi della città” (l. 53 del 8 marzo 2000).
Io li leggo questi titoli e quasi mi commuovo pensando alle lavoratrici madri, all’innalzamento dell’obbligo scolastico, alla scomparsa del medico della mutua, all’elezione diretta dei sindaci e alla scoperta dei “tempi della città”. Non che i contenuti di quelle leggi mi piacciano tutti, soprattutto con il senno di poi. Ma ciascuna incarna un’idea, quasi un ideale. Sono tentativi di realizzare le norme costituzionali in materia di eguaglianza dei cittadini, parità tra i sessi, gratuità dell’istruzione, diritto alla salute.
Un progetto di società
Pensiamo anche a tutte le leggi ricordate con il nome dei parlamentari che le hanno promosse e che sono stati i primi firmatari della proposta: legge Merlin (abolizione delle cosiddette “case chiuse”), legge Fortuna-Baslini (introduzione del divorzio), legge Basaglia (chiusura dei manicomi).
Possono piacere o non piacere ma rappresentano un progetto di società, e hanno effettivamente contribuito a cambiarla, questa società. E tutto questo sarebbe stato fatto da un parlamento troppo numeroso di parlamentari fannulloni? Magari non tutti hanno lavorato nello stesso modo.
Mia figlia, della generazione dei thirty something, quando le chiedo perché voterà “no” mi risponde: “Bè, se i parlamentari lavorano male non è che diminuendo il loro numero lavoreranno meglio. Magari c’è solo l’1% che lavora e con il taglio si taglieranno proprio loro …”. La ragazza si mostra così in perfetta – ancorché inconsapevole – sintonia con un protagonista di altri tempi, il grande Umberto Terracini, che fu presidente dell’Assemblea Costituente.
In quella sede infatti Terracini argomentò che i deputati che effettivamente contribuiscono al lavoro del parlamento “rappresentano soltanto una percentuale”: se la Camera, putacaso, “dovesse essere composta di 300 deputati, si creerebbe un’assemblea nella quale probabilmente solo 150 membri parteciperebbero veramente al lavoro legislativo.” (Dal resoconto del dibattito alla Costituente su Il Foglio, 12-13/9/2020)
Non so quanti hanno letto il testo della legge costituzionale. Quattro scarni articoletti, un po’ di numeri: seicentotrenta diventa quattrocento, trecentoquindici diventa duecento: come se si trattasse di ordinare le pizzette per una festa e dopo un primo conto si decide di diminuire per risparmiare qualcosa.
Del resto è proprio questo il messaggio implicito del titolo della legge, chè altri non se ne vedono, ed è stato anche l’argomento principale dei Cinque Stelle: “Un miliardo! Pensate a tutte le cose che si possono fare con un miliardo (in dieci anni) – costruire 133 nuove scuole, comprare 133 nuovi treni, assumere 25000 infermieri”.
Oggi questo argomento è passato in secondo piano, perché con la promozione del referendum l’opinione pubblica si è già fatta sentire. E non sembra un’opinione pubblica disposta a gridare in coro “Basta con la politica!” (per fortuna perché questo tipo di slogan spiana la strada ai poteri autoritari). Ecco allora che chi ha fatto quella legge – la quale in nome del popolo italiano sottrae al popolo una fetta dei suoi rappresentanti, pagati per dar voce ai suoi bisogni e desideri, e anche per tener d’occhio il governo – oggi, dopo aver alimentato rancore, sospetto e invidia sociale cerca supporto in argomenti tecnici.
Argomenti un po’ strani. “E’ una tendenza europea” dice l’onorevole Ceccanti (Corriere della Sera, 10-9-2020) – una tendenza, per esempio, della Gran Bretagna che dall’Europa è appena uscita. “E’ una riforma attesa da tempo”, martellano altri senza ricordare che quelli che ci hanno provato, centro-destra nel 2006, centro-sinistra nel 2016, si sono visti respingere il loro progetti dal popolo. “E’ il primo passo per cambiare la legge elettorale” sostiene l’ex senatore Migone (Corriere della Sera, 9-9-2020) – scusate non si poteva fare il contrario, cambiare la legge elettorale e vedere se ne veniva fuori un parlamento migliore, cioè curare anziché tagliare? Mi spiazza poi il professor Onida quando afferma che “Votare no aggraverebbe il senso di sfiducia dei cittadini”. Scusi Professore ma chi è che vota no? Non sono forse i cittadini stessi?
Insomma, se quando si appoggia ad argomenti politici il taglio dei parlamentari appare uno schiaffo alla democrazia, quando si appoggia ad argomenti tecnici appare uno spintone alla logica.
E’ vero che da quasi due decenni ormai l’attività parlamentare “va a rimorchio del governo” come dice Cassese e consiste nel ratificare decisioni prese dal governo.
Ma ciò dimostra soltanto che lo spostamento tanto invocato dei poteri dal legislativo all’esecutivo non ha migliorato le cose, né in termini di efficienza del governo né in termini di qualità delle leggi.
La qualità del parlamento è stata anche danneggiata da un sistema politico-elettorale che mette in mano la selezione dei deputati ai capi di partiti “personali” (Migone) perché è venuta a mancare la “qualità degli organismi intermedi, cioè dei partiti e delle grandi organizzazioni sociali” (Onida).
Ma se il numero dei parlamentari non è né una variabile esplicativa del cattivo funzionamento del parlamento, né un fattore determinante per il suo buon funzionamento, su cosa andiamo a votare?
Se non cambia nulla, allora votare “si” significa dare sfogo a un po’ di rancore sociale o imbarcarsi in bizantinismi politici su ciò che favorisce il governo o gli nuoce.
Votare “no” invece significa “non approvare” una legge che appare quanto meno inutile – se non perniciosa – all’atto pratico e sicuramente deleteria nel suo impatto simbolico. Significa che non mi piace la composizione del parlamento attuale ma sono affezionato all’istituzione parlamentare. Significa che se i princìpi costituzionali sono lungi dal trovare soddisfacente applicazione non per questo è opportuno “sbrecciare la Costituzione italiana” .
Anche perché tutto lascia presagire che non c’è nessuna intenzione di invertire la tendenza antipolitica per mettere mano a riforme razionali. Per un Ceccanti che dice che le assemblee parlamentari “non hanno bisogno di componenti poco pagati” c’è una Paola Taverna (vice-presidente del Senato) che ribatte “Un minuto dopo il referendum possiamo tagliare anche gli stipendi”.
Altro che riforme. Di questo passo resteremo con una manciata di parlamentari, dotati di patrimonio proprio, in competizione tra loro per essere messi in liste bloccate e collegi sicuri dai capi-partito, per ratificare provvedimenti governativi suggeriti da Comitati tecnici.
Questi ultimi poi sono anch’essi pagati con i soldi dei cittadini – magari con i soldi risparmiati sulle paghe dei parlamentari – ma i cittadini non né scegliere né valutare i membri di questi comitati, e nemmeno sostituirli con altri se dopo un periodo prefissato il loro operato non appare all’altezza.