Laluce.news mi ha chiesto di ricordare chi era mio fratello Abdel Hamid Shaari, che è mancato oggi dopo una lunga malattia che lo aveva costretto a ritirarsi da ogni attività comunitaria e pubblica.
In gergo giornalistico si chiamano coccodrilli, sono i necrologi che nei giornali di un tempo si preparavano per le personalità della politica o dello spettacolo anche molti anni prima della loro morte e che si aggiornavano di tanto in tanto in modo da essere pronti, o quasi, al momento opportuno. Non ne ho mai scritto uno.
Un amico prima di tutto, anche prima che un fratello, ché la fraternità è un dovere islamico, mentre l’amicizia è un dono di Allah che unisce nella vita, e nel ricordo, persone anche diverse che hanno tuttavia un complesso mondo di sentimenti, d’impegni, di speranze e anche di delusioni e di sofferenze che li accomuna.
Qualcuno scrisse anni fa che Shaari era l’uomo giusto nel posto sbagliato.
Erano gli anni in cui sull’associazione islamica che presiedeva si abbatterono criticità e problemi che poi, negli anni successivi sarebbero diventati purtroppo frequenti e diffusi.
Il Mahd taqafi, l’Istituto Islamico di viale Jenner a Milano era al centro di una quantità di inchieste, la prima, denominata dalla fantasia questurina Operazione Sfinge, risale al 1995 e poi diverse altre fino alla condanna dell’imam Abu Imad a 3 anni e otto mesi di reclusione per “associazione per delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo”, una pena ridicola se messa in relazione alle accuse per le quali era stato processato e che era, a nostro avviso, il segno evidente che niente di davvero concreto era emerso contro di lui.
Poi il rapimento, nel febbraio del 2003, di Abu Omar, imam anche lui e frequentatore del Mahd, da parte di un commando di agenti della CIA con il concorso di alti funzionari e ufficiali del SISMI per il quale una lunga vertenza giudiziaria si concluse con un nulla di fatto per l’opposizione da parte del Governo italiano del “segreto di Stato” e infine con la grazia concessa dal presidente Napolitano a Joseph Romano, colonnello dell’aviazione USA condannato a 5 anni con sentenza definitiva come uno dei maggiori attori di quel sequestro.
In tutti quegli anni Shaari, rimase al suo posto, cercando di rispristinare l’onorabilità di quell’associazione e mantenerla nella legalità nonostante tutto.
In un’intervista ebbe a dire: “La nostra è una sfida drammatica, in cui anche lo Stato dovrebbe fare qualcosa. Collaboriamo con le forze dell’ordine per tagliare la strada a chi vuole mimetizzarsi nelle moschee per altri scopi. Ma le istituzioni politiche, anziché denigrarci e rendere così difficile, fino all’umiliazione, la pratica religiosa musulmana, dovrebbero cercare interlocutori rappresentativi fra noi. Cosa deve pensare un giovane islamico sbattuto di qua e di là per pregare, come se fosse un delitto? Lo Stato dovrebbe pensare ai suoi nuovi cittadini musulmani, non lasciare che ci organizziamo anche in Italia alla maniera del Terzo mondo, subendo l’imposizione di capi improbabili”.
Poi qualche anno orsono un ictus lo mise completamente fuori gioco e sono stato testimone della sua condizione quando andai a trovarlo nell’ospedale in cui era stato ricoverato. Era lucido, mi riconobbe e mi fece un cenno con occhi nei quali c’era la serena accettazione della sua condizione.
Allah abbia misericordia di te amico mio, ci hai preceduto, ci ritroveremo in sh’Allah in pace.