Tra le insicurezze connaturate al tempo pandemico una certezza è destinata a perdurare: lo smart working.
Si tratta infatti di una tendenza inevitabile della nostra società, annunciata da anni, intravista nello specchio americano del nostro futuro e improvvisamente diventata realtà.
Nel mondo anglosassone l’agile definizione assume subito l’aura di una rivoluzione flessibile, leggera e dinamica.
Tradotta in italiano, inteso come lingua e costume, assume la pesantezza di un concetto come il telelavoro, oppure la sciattezza di un semplice lavoro da casa.
Traducendo il concetto in immagini, si intravede un americano chiuso in una stanza privata, quasi insonorizzata, vestito con abiti da ufficio, di fronte a un Mac ed una tazza contenente mezzo litro di un sembiante del caffè.
Dall’altra parte del globo, vediamo un italiano in ciabatte, di fronte a un vecchio pc e diverse tazzine di caffè, ormai vuote, sospeso tra i rumori di un televisore perennemente acceso, gli odori di pentole sui fornelli e la presenza interrogativa e alterna dei bambini. Non c’è da preoccuparsi, è un’innocua descrizione caricaturale, frutto di una differenza di tradizione che il tempo spianerà con accurata e profonda dedizione.
Ma la vera questione di fondo resta: si tratta davvero di un lavoro-intelligente?
Pare proprio di sì.
Dal punto di vista delle aziende: risparmio dato dalla mancanza d’affitto e di manutenzione dei locali d’ufficio, dissoluzione del pagamento degli straordinari, responsabilizzazione dei dipendenti.
Dal punto di vista del lavoratore: risparmio di denaro e tempo dovuto agli spostamenti, maggiore autonomia nella gestione del lavoro, conforto dato dal poter lavorare in un ambiente familiare.
Anche se potrebbe apparire lineare, tutto questo è fin troppo vicino al punto d’incontro tra le prospettive di Confindustria e del più semplice degli impiegati; ovvero l’anima di un ingranaggio abbagliato dalla produttività e dal risparmio. L’evoluzione del lavoro e quindi della società capitalistica obbedisce invece ad altre logiche, durature e totalizzanti.
Il vero mutamento consiste non nella veste esteriore del lavoro, ma nella sua interiorizzazione.
All’inizio del capitalismo c’è stata la fabbrica che poi man mano è diventata ufficio, ma la logica sottostante non mutava: il lavoro aveva luogo in uno spazio e in un tempo separati dal resto della vita quotidiana e privata.
Da una parte il tempo venduto e dall’altra il tempo libero. Nella più utopica e raffinata delle variabili tale logica ha dato vita alla città fabbrica, in cui tutto lo spazio del lavoratore era ormai disciplinato dal lavoro.
Lo smart working rappresenta invece il perfetto ribaltamento del capitalismo delle origini: è il lavoro a spostarsi nella vita quotidiana del lavoratore e non viceversa.
La separazione spaziale tende a sfumare: la casa diventerà la cellula produttiva fondamentale, mentre la famiglia non lo è più da decenni. Il tempo invece sarà costituito da un alternarsi tra obblighi e divertimenti, o per dirla all’inglese tra smart working e hobbies.
L’individuo sarà confrontato con un nuova disciplina della produttività, non più eterodiretta. La differenza tra lavoro ordinario e straordinario, starà a lui individuarla, senza però aspettarsi il rinforzo di un’ulteriore retribuzione.
Non ci sarà più l’orologio dell’ufficio a scandire la vita produttiva, ma la logica degli obiettivi da raggiungere, cosicché il fantasma del lavoro a cottimo potrà finalmente reincarnarsi in un abito moderno.
Cosa accade allora? Il lavoro che non ha più un luogo, uno spazio fisico in cui identificarsi, è ovunque e finisce con l’assimilare anche il tempo di vita. Questo significa che paradossalmente lo smart working potrebbe riuscire a realizzare l’utopia laddove aveva fallito anche l’ideale della città-fabbrica: totalizzare il lavoro nella biologia di un individuo.
E come ci riuscirebbe? Non trattenendo il tempo vitale in uno stesso luogo, ma sottraendo al lavoro la variabile stessa della spazialità.
Vediamo ora alcune ricadute pratiche.
Il lavoratore solerte, scrupoloso ed egoicamente credente nella fede della produttività, corre il rischio di non riuscire più a gestire la propria sfera privata. L’ego si gonfierà sostenuto da una vita quotidiana e lavorativa vissuta all’unisono. Ma qualora subisse la necessità di uscire dalla sua identità, lo spazio privato in cui rifugiarsi e identificarsi, sarà divenuto ormai pubblico.
Sull’altro versante della produttività, scorgiamo un lavoratore indolente, produttivamente laico se non nichilista, che colmava il non-sense della propria giornata lavorativa, con la socialità da bar, la complicità, la battuta o il pettegolezzo: cosa farà in futuro? Una parte di quella socialità la trasferirà sui social network, seduto sulla propria sedia o sul divano, riuscendo difficilmente a liberarsi dalla propria sedentarietà identitaria.
Per rispondere all’interrogativo iniziale: sì, lo smart working è davvero un lavoro intelligente.