Con la riconversione di Hagia Sophia/Ayasofya da tempio del turismo di massa a luogo di culto, lo scorso 24 luglio, la Turchia ha subito una nuova offensiva mediatica internazionale basata su informazioni selettive e tendenziose, o addirittura su ribaltamenti sfacciati della realtà.
Innanzitutto, la decisione del presidente Erdogan, che ha fatto seguito a una sentenza della magistratura, è stata presentata come l’ennesima prova della sua volontà di imporre un’impronta religiosa alle istituzioni e alla vita sociale e culturale del paese. Corollario di questa volontà sarebbe il disprezzo verso le altre religioni presenti in Turchia e verso il loro patrimonio culturale, in questo caso specifico quella cristiana.
Illustri commentatori si sono interrogati ad esempio sul futuro di mosaici e affreschi, nonostante le riassicurazione offerte sulla loro preservazione e fruibilità e le immagini diffuse. Anzi, già l’esempio dell’Ayasofya di Trabzon, riaperta dopo due anni di restauri un giorno dopo l’Ayasofya di Istanbul, può essere considerato dirimente. È nata anch’essa come chiesa bizantina, è stata trasformata in moschea dopo la conquista ottomana e poi musealizzata dopo la Seconda guerra mondiale, è stata riconvertita in moschea nel 2012-2013.
Cosa ne è stato dei suoi straordinari affreschi, come del pavimento in opus sectile, marmoreo e policromo? Nei fatti, solo gli affreschi della cupola sono oscurati con un sistema di fari e di dischi di plexiglas, esclusivamente durante gli orari delle preghiere; altrimenti, sono perfettamente visibili. Tutti gli altri cicli pittorici, negli altri ambienti dell’edificio, sono sempre liberi. Il pavimento marmoreo, invece, è semplicemente coperto con lastre di vetro rinforzato.
In ogni caso, ciò che è mancato nelle ricostruzioni mediatiche è un elemento ulteriore e ancora più importante. A parte il caso di queste moschee costruite come chiese e poi musealizzate – bisogna aggiungere l’Ayasofya di Iznik e San Salvatore in Chora a Istanbul – ci sono sia chiese sia sinagoghe che, in stato di abbandono per lunghi decenni, sono state restaurate/ricostruite e riaperte al culto solo negli ultimi anni, grazie all’impulso proprio di Erdogan.
Insomma, la tesi propinata è che la Turchia se la prende con i luoghi di culto dei cristiani (e degli ebrei). Tuttavia, si tace tutto ciò è che in palese contrasto: solo per citare gli esempi più eclatanti, la ricostruzione della grande sinagoga di Edirne, il restauro e la riapertura al culto del monastero greco-ortodosso di Sumela (sempre vicino a Trabzon), il restauro e la riapertura al culto della chiesa di Aktamar sul lago di Van, il restauro e la riapertura al culto della chiesa sempre armena di Surp Vortvots Vorodman ancora a Istanbul.
E sempre in tema di preservazione del patrimonio culturale armeno, si può citare l’inclusione nella Lista del patrimonio dell’umanità dell’Unesco – voluta nel 2016 dal governo turco – delle rovine di Ani, la “città dalle 1001 chiese”. Ma questi sono solo i casi simbolicamente più rilevanti: quelli che storicamente hanno sempre attirato il più alto numero di fedeli, ma dove le autorità cosiddette “laiche” hanno proibito fino ai primi anni 2000 ogni funzione religiosa. Il totale degli edifici di culto non musulmani – chiese e sinagoghe – restaurati negli ultimi 15 anni supera invece i 100. Molto spesso, buona parte dei fondi necessari è stata messa a disposizione proprio dal governo turco.
La riflessione da fare è questa. Perché il ripristino al culto islamico di edifici che erano già stati moschea per 4 o 5 secoli ha meritato prime pagine e aperture dei telegiornali, mentre i restauri di altri luoghi simbolo del cristianesimo e dell’ebraismo in terra anatolica sono stati sistematicamente ignorati dai mass media? Perché l’informazione sulla Turchia è così sbilanciata, così ideologizzata, così fuorviante?