E’ bastato che il preside di un liceo abbia criticato l’uso delle minigonne a scuola – sostenendo che alimentano sguardi poco rispettosi da parte di alcuni docenti nei confronti delle alunne – per dare la stura alla nuova polemica settembrina. D’altro canto gli alfieri del politicamente corretto si sono affrettati a relegare la questione a polemica di nicchia, alimentata – a lor dire – dai soliti tradizionalisti bigotti ed ottusi.
Si dirà innanzi a tutto che nessuno ha il permesso di guardare una donna in quel modo in alcuna circostanza; e questo è vero.
O meglio, sarebbe vero in una società meno volgare e materialista ,in una società permeata di valori civili e religiosi … ma non appare essere il caso dell’Italia del 2020.
Posta così la questione dà facilmente adito alle proteste delle immarcescibili femministe mai stanche di ripetere i loro principi ideologici, come un mantra; senza che tutto questo, ahimè, riesca a impedire le molestie contro le donne.
E, soprattutto, senza capire che la minigonna finisce fatalmente per rinforzare l’immagine della donna come oggetto sessuale e merce in vendita, facendo il gioco di chi – come diceva Marx – lavora per il Re di Prussia. In verità, esiste una questione che spazzerebbe via le differenze financo tra donne laiche e religiose, di destra e di sinistra. Dobbiamo riconoscere che viviamo in una società permeata da tanta volgarità, che ha invaso ogni sfera della vita sociale e che, unita all’ignoranza ed alla laicizzazione forzata, contribuisce in maniera inesorabile al declino morale e civile del Bel Paese.
Le donne ne sono tanto vittime quanto artefici e complici ogni volta che, in nome di un mal compreso concetto di libertà o per superare qualche forma di discriminazione, fanno qualcosa che non assicura loro affatto l’agognata emancipazione, invece ne mercifica il corpo, solo mezzo concesso loro per farsi notare ed apprezzare.
I social media pullulano di cinquantenni sovrappeso, mezze rifatte, vestite come quindicenni e di donne incinte in baby doll rosso, che si fanno ritrarre a nove mesi, mezze nude, di fronte al mondo. Non si tratta di promuovere in tal modo l’accettazione di tutti i corpi umani come espressione di bellezza per cancellare la bruttezza o i difetti delle persone o creare diverse forme di bellezza, indipendenti dallo sguardo maschile.
Molto più semplicemente, si tratta di volgarità (consapevole o meno), intesa come l’esposizione del corpo senza alcun riferimento etico o spirituale, senza nemmeno una rivendicazione ideologica o filosofica, senza un pensiero che si elevi oltre l’ostentazione insensata o il voyeurismo plebeo.
Nella società – come in natura – esiste una gerarchia ma il livellamento verso il basso di ogni principio e modello di riferimento, ha portato alla comune rassegnazione alla volgarità, all’accettazione di esseri indegni a posti di responsabilità, in barba a competenze ed onestà. Spettacoli come il “Grande Fratello” o “Amici” hanno inebetito migliaia di giovani mettendo loro in testa che non serve studiare ma basta essere belli o saper ballare e cantare per diventare ricchi e famosi. Ne sono testimonianza rapper miracolati, venuti da periferie disastrate e abbrutite; ma per uno che emerge mille restano nel ghetto, quando basterebbe investire di più in istruzione e welfare per ridurre le sacche di indigenza.
I social media hanno enfatizzato la religione del like, da conquistare anche a costo di fare video stupidi o indecenti perché la visibilità sociale oggi è tutto.
Il monito del preside serve a ricordarci che la scuola ha una sua dignità e che è un luogo diverso da una piscina o da uno stabilimento balneare e che il caldo non autorizza la nudità a scuola, al lavoro o addirittura nelle chiese. Prima ancora della distinzione fra chi crede e chi non crede, va riconosciuta la differenza fra ragione e stupidità, tra decenza e volgarità. Si può ripartire – o almeno provare a farlo – ricordando ai giovani (e non solo) che docenti e discenti dovrebbero attenersi a regole comuni di buona educazione, utilizzare un linguaggio appropriato, rispettare il bene comune, e riconoscere dignità ai luoghi deputati alla crescita intellettuale e culturale, e soprattutto rispettare la dignità e intelligenza dell’essere umano.
Le giovani donne dovrebbero essere in prima fila nella lotta contro la discesa verso il basso di competenze e saperi, perché nell’istruzione va riconosciuta una formidabile leva di emancipazione del genere umano, se rettamente intesa. E poiché chi ha rispetto per se stesso non può mai accettare di trasformarsi in un burattino al servizio altrui, le donne non dovrebbero accettare il ruolo di oche e anche un po’ prostitute per soddisfare la bestialità di chi sfrutta gli esseri umani come merce di basso valore.
La ricostruzione del vivere civile passa anche attraverso il rinnovamento della dignità umana, lo spirito di miglioramento del carattere e non solo delle condizioni materiali, l’impegno per il bene comune e non solo per la soddisfazione dei propri desideri, insomma il senso da attribuire alla propria esistenza, oltre le ingannevoli apparenze promosse da chi nega ogni valore trascendente.