Il cosiddetto smart working non è certamente una innovazione di poco conto. Supera la distinzione fordista tra tempo di lavoro e tempo di vita, confondendo inevitabilmente i due piani. Sicuramente fino a tempi recenti questa modalità lavorativa era guardata con sospetto, per opposte ragioni, tanto dagli imprenditori che dai sindacati. Oggi, invece, secondo una ricerca citata dal Corriere della Sera un lavoratore su cinque è estremamente soddisfatto di lavorare da casa, malgrado le difficoltà di ordine tecnologico o pratico che possono insorgere.
Solo uno shock come la pandemia poteva far accettare supinamente ai cittadini cambiamenti tanto improvvisi quanto coatti; e da questo punto di vista anche il lavoro agile è calato come un fulmine a ciel sereno sul mondo del lavoro. Non solo sono state calpestate molte fra le nostre libertà personali, ma anche i sindacati hanno subito una difficile sfida sul terreno del loro potere, strettamente legato al posto di lavoro in fabbrica o in ufficio e a definiti orari d’impiego. Per evitare di ricorrere al sistema dei contratti individuali tra lavoratore e datore di lavoro, Governo, sindacati ed associazioni dei datori di lavoro stanno pensando di stipulare accordi-quadro su una materia apparentemente inedita, anche se se ne parla almeno dal 2013.
Un sindacato – l’USB – ha strappato importanti accordi sulla difesa del diritto alla salute per i lavoratori nei mesi della pandemia, difendendo anche i diritti degli utenti della sanità pubblica e nel pubblico impiego, fatto che non era assolutamente scontato. I dirigenti hanno dovuto adattarsi alla nuova realtà, transitando da una mentalità di controllo dei dipendenti basata sul tempo di lavoro, ad una prospettiva che tiene più in conto i risultati. Un’evoluzione a tutta prima positiva e che sembrava irraggiungibile per la cultura del lavoro in Italia. Tuttavia, essa porta con sé il rischio concreto – se non guidata – di far approdare il mondo del lavoro a forme neoliberiste e di deregulation al ribasso, come accadde per il vecchio e famigerato lavoro a cottimo.
Era da almeno un lustro che si sentiva parlare – nel pubblico impiego – di lavoro agile come progetto sperimentale inteso a coinvolgere circa il 10% degli impiegati. Ma ecco che la pandemia ha fatto diventare di massa questo tipo di lavoro a cui continuano ad avere accesso soprattutto persone vicine alla pensione e genitori di figli in tenera età. In realtà, se ben organizzato, il lavoro agile potrebbe permettere un equilibrio tra lavoro e famiglia (particolarmente per le donne) oltre a costituire un risparmio per le aziende ed un aiuto all’ambiente, dato il minor utilizzo dei mezzi privati di trasporto. Ma alla fine, in assenza di incentivi, lo stipendio diminuisce fatalmente in un regime come quello italiano di bassi salari; mentre, al contrario, aumenta la produttività del sistema.
In questi giorni, anche come utente del Servizio Pubblico, ho visto risposte alle mail con tempi di attesa di appena 12 ore o mail ricevute al sabato mattina, cosa impensabile a Roma e lo stesso è accaduto a mia figlia Sarah che ha ricevuto una mail di risposta dalla Segreteria de La Sapienza a 24 ore dalla richiesta, un sabato mattina quando prima aspettava anche 30 giorni. Io stessa ho telefonato ad un utente di domenica pomeriggio perché tanto lo dicevo fare e non mi costava nulla non ho pensato certo all’orario fuori dalla timbratura del cartellino. E’ il diario del giorno?
Le aziende da parte loro dovrebbero garantire dei benefit e soprattutto pagare regolarmente eventuali straordinari; o meglio, si dovrebbe fare in modo che l’aumento dei profitti e della produttività sia di vantaggio anche per i lavoratori, come accade nel modello tedesco ed in ogni azienda che si rispetti. Il problema principale posto dal lavoro agile è la segregazione della mansione esercitata dal lavoratore, che presta la sua attività chiuso in casa per diversi giorni della settimana e quindi risente dell’isolamento e della mancanza di contatti reali con i colleghi. Costruire una società di individui parcellizzati ed asociali è foriero di rischi sociali prevedibili, anche perché nella società moderna sono sempre meno i luoghi di aggregazione forti in cui il lavoratore o il cittadino possa sentirsi membro di una comunità.
Il rischio, alla fine, è che una misura giustificata nell’ambito di un progetto economico e sociale organico, se lasciata nelle mani di politici incompetenti e tecnocrati spietati, diventi invece una riforma gravemente antipopolare. Non è difficile intravvedere come questa pandemia abbia agito come detonatore per una serie di riforme della società miranti alla creazione di una élite di privilegiati, di fronte ad una massa di precari isolati e scarsamente istruiti. Ancora una volta per comprendere la situazione del luogo dove viviamo, la cartina al tornasole è rappresentata dallo stato dell’istruzione e della ricerca. In piena crisi economica alcune Università italiane hanno avuto la bella idea di rivalersi, per i minori introiti, sugli studenti aumentando le tasse; tutto ciò in un Paese in cui i laureati in alcune materie strategiche sono pochi e meno ancora quelli che trovano un’occupazione conforme agli studi intrapresi. Il degrado dell’istruzione sembra concepito per debilitare la gioventù e farne una massa di consumatori con scarso intelletto e pochi diritti.
E’ allora opportuno far luce sulle recondite finalità di alcune riforme e sugli esiti disumanizzanti legati ad una visione del mondo materialista e immorale. Non si tratta di idealizzare il fordismo, ma di fare chiarezza sulle conseguenze dell’aumento della solitudine, dell’isolamento e della parcellizzazione del lavoro, in un Paese ad alto tasso d’individui che vivono da soli o famiglie di due componenti e ad un drammatico livello di emigrazione giovanile. Assistiamo alla sperimentazione di nuovi modi di stare al mondo, senza però la possibilità di metterli in discussione, di esprimere valutazioni e proporre alternative.