Una donna diabetica, che sta diventando cieca, ha vissuto per 20 anni con la famiglia in un misero accampamento nella valle del Giordano. Recentemente l’esercito israeliano ha demolito per due volte l’insediamento e minaccia di ritornare.
Ecco cosa ha scritto sulla sua pagina Facebook la scorsa settimana Daphne Banai, un’ attivista di Machsom Watch (Checkpoint Watch): “Questa è la terza visita che faccio loro, e ogni volta me ne vado ancora più sconvolta e addolorata,…Maryam sta perdendo una gamba e la vista. Una volta al mese, le viene praticata un’iniezione negli occhi nel tentativo di salvarglieli. Ha un aspetto fragile ed è anziana; ha il diabete. Vive con suo marito…suo figlio e sua nuora nel più desolato e difficile dei luoghi nei dintorni di Fasayil,” un villaggio della Cisgiordania.
“Quasi tutti i giorni, le temperature di agosto e di settembre han superato i 45 gradi Celsius [113 Fahreneit]. Il 25 agosto i soldati sono arrivati al mattino presto e hanno demolito le povere baracche di lamiera, la cucina e l’ovile. Da allora passano le giornate sotto il sole cocente. Nulla hanno oltre a una piccola tenda che gli è stata donata dalla Croce Rossa Internazionale. Non riesco a capire come facciano a sopravvivere. Dopo dieci minuti noi ci sentivamo svenire, e ce ne siamo andati. Così dev’essere l’inferno…”
Ma questa non è stata l’ultima delle prove che Maryam Nawarwa e la sua famiglia hanno dovuto sopportare. La cosiddetta Forza di demolizione dell’Amministrazione civile – l’organo di governo israeliano nei territori – è ritornata un mese dopo la sua prima visita, il 30 settembre, e ha portato via 4 case mobili che l’Autorità Palestinese aveva donato per permettere a loro e a qualche vicino di continuare a vivere in quel luogo. E lunedì scorso, del personale della Amministrazione Civile è ritornato, questa volta solo per fotografare le squallide tende che la famiglia aveva nuovamente eretto. I funzionari hanno anche promesso di ritornare, per demolire la sola struttura residenziale rimasta in piedi- la baracca di Maryam, dove la sua famiglia si raccoglie per trovar riparo dal caldo e dove qualcuno di loro passa anche la notte – così come lo sgangherato ovile che è stato ricostruito e dove 70 animali sono ammucchiati cercando rifugio dallo spietato calore della valle del Giordano.
È uno spettacolo molto triste: rovine, mucchi di immondizia, contenitori di plastica, tubi rotti e altro ancora, e fra tutto questo le pecore e i cani randagi- e la cinquantaquattrenne Maryam, piegata sul suo bastone, va a tentoni fra le rovine, con una gamba gonfia dopo che un alluce le è stato amputato per il diabete. Anche altri quattro membri della famiglia sono malati, ma Maryam è la più grave.
Per buttar giù la casa di questa donna, davvero bisogna essere insensibili e con mancanza di compassione. Fra tutte le migliaia di case e di case mobili che i coloni costruiscono in abbondanza in ogni angolo della Cisgiordania, è proprio in questo accampamento, che si trova vicino alla strada interna che connette Fasayil bassa a Fasayil alta – due minuscoli villaggi nella valle – il luogo dove l’occupazione ha deciso di far rispettare le sue leggi, quantunque esse violino la legge internazionale. Ma l’obbiettivo è ripulire l’area C (la parte di territorio sotto totale controllo israeliano) dal maggior numero possibile di abitanti palestinesi, e sono i più deboli ad essere scelti per primi. Sono espulsi e le loro tende e le loro baracche sono abbattute dai bulldozer, anche se vivevano lì da un paio di decenni.
Uno sgangherato ventilatore messo fuori dalla capanna- la famiglia è ancora collegata alla rete elettrica di Fasayl- tenta debolmente di fare un po’ di fresco. Da due settimane ormai, Imad Nawarwa, che ha 34 anni ed è il maggiore dei figli di Maryam, non va a lavorare come bracciante nei campi di pepe e nei vigneti del vicino insediamento di Tomer, dove per un giorno di lavoro, riceve la misera paga di 70, 80 shekels (20-23 dollari). Non vuole lasciare la madre e l moglie, Dalal, sole nell’accampamento, per paura che l’esercito ritorni a portare distruzione. Il capofamiglia, Mussa, che ha 60 anni, è andato a Gerico, circa 14 chilometri più a sud, per fare acquisti e far commissioni. Sei dei nove bambini Nawarawa vivono con i loro genitori nell’accampamento; tre figlie si sono sposate e se ne sono andate. Imad e Dalal, che sorride timidamente dall’angolo più lontano della cucina di fortuna, sono sposati da 12 anni ma non hanno bambini, probabilmente a causa del diabete di cui soffre anche lui. In passato gli è stata proposta una cura per la fertilità al proibitivo costo di 15.000 shekels.
La famiglia ha vissuto qui per vent’anni, dopo aver traslocato dai dintorni di Betlemme dove viveva in un pezzo di terra situato fra gli insediamenti di Tekoa e Nokdim per aver sentito che c’era lavoro negli insediamenti della valle del Giordano.
I loro attuali vicini, nell’accampamento opposto al loro, appartengono alla famiglia Taamra, il clan più numeroso della regione di Betlemme. Le loro tende e le loro capanne sono ancora in piedi. Poiché questa è tutta area C, nessun palestinese ha mai ottenuto un permesso per vivere qui, e non ci sono possibilità di ottenerlo. Molti dei loro coloni-vicini che vivono in fattorie e avamposti costruiti violando la legge israeliana sono molto meno legali di quanto lo siano loro.
Dall’altro lato dell’accampamento Nawarwa, c’è un fossato che fu scavato da archeologi israeliani anni fa, dove ora si raccoglie la spazzatura. Per anni Mussa è stato impiegato come guardiano del sito, e ha continuato in quel lavoro anche dopo che lo scavo fu completato, benché negli ultimi anni il suo salario non gli è stato corrisposto.
Maryam si toglie la scarpa e ci mostra la pianta del piede malato. Non ha denti e la sua vista deteriorata le permette di vedere solo qualche metro davanti a sé; di notte non può veder nulla. Le iniezioni che le praticano in una clinica di Gerico dovrebbero salvarle la vista, ma ogni iniezione costa 600 shekels (177 dollari), spesa non coperta dall’Autorità palestinese, e Maryam non se le può più permettere.
Ci dicono che, in tutti gli anni in cui la famiglia ha vissuto qui non ha avuto mai problemi con l’Amministrazione Civile, fino a un anno fa, cioè fino a quando non hanno ricevuto l’ordine di sgombero. Un avvocato mandato dall’Autorità Palestinese ha provato a far revocare l’ordine, ma senza successo. Quindi l’esercito si è presentato.
È stato nella tarda mattinata del 25 agosto. Un’importante forza militare con circa 15 veicoli e un bulldozer sono arrivati.
Mentre abbattevano ogni cosa, i militari hanno detto alla famiglia: “Non potete stare qui. Andatevene subito.”
“Non ce ne andremo da qui. State distruggendo le nostre case e noi resteremo sulla terra,” ha risposto Mussa.
Solo la baracca di Maryam è rimasta in piedi, una struttura mal ridotta consistente in parte di mattoni e in parte di latta e di stracci. Anche il forno tabun della famiglia, pieno di feci delle pecore è rimasto in piedi.
Quella notte i Nawarawas hanno dormito per terra, insieme al loro bestiame. Il giorno seguente la Croce Rossa ha portato loro quattro tende bianche. Poche settimane più tardi, il 20 settembre, l’Autorità Palestinese ha portato quattro case mobili, che loro hanno sistemato sull’altro lato della strada che mette in comunicazione le due Fayasil, pensando che se fosse stato permesso loro di stare sul lato est della strada, forse avrebbero potuto vivere sul lato sinistro. Ma fu solo questione di qualche giorno e le forze dell’Amministrazione Civile sono arrivate e hanno confiscato le loro nuove abitazioni mobili e le hanno caricate su dei camion.
Ora il padre della famiglia dorme fuori sopra a una porta di ferro che è stata strappata dai suoi cardini e in qualche modo è stata sottratta alla distruzione; sua moglie e i bambini dormono sul pavimento di quello che resta della baracca, che funge da cucina durante il giorno. Una piccola casupola ospita il bagno, che è stato loro donato, ma che non funziona perché l’installazione è stata strappata durante la demolizione del sito. “Fa da decorazione” dice Imad, sorridendo amaramente. La famiglia compra l’acqua da una cisterna che passa nel sito.
Questa settimana Haaretz ha sottoposto la seguente domanda all’ufficio del Coordinatore delle Attività Governative nei Territori: “il 25 agosto e nuovamente il 30 settembre, elementi dell’unità di ispezione del COGAT hanno distrutto l’accampamento di tende della famiglia Nawarwa a Fasayil, nella valle del Giordano. Vi hanno vissuto per 20 anni. La madre di quella famiglia è molto ammalata ed è stata lasciata senza un tetto sopra la testa. Perché c’è stata una demolizione, e perché adesso?”
Ecco la risposta: “martedì 25 agosto, l’unità di ispezione di COGAT ha intrapreso un’operazione di legge contro un ovile e quattro tende che erano state erette illegalmente, senza i permessi richiesti e senza l’autorizzazione. A Petzla [l’insediamento vicino] nell’area C, allo stesso modo, mercoledì 30 settembre, l’unità è stata impegnata in un’operazione di contrasto contro due tende illegali e due baracche di latta, erette nella stessa area. Vorremmo far notare che queste operazioni per il ripristino della legalità sono state eseguite in accordo con le autorità competenti e secondo il protocollo, e conformemente all’ordine di priorità e a considerazioni operative.”
“Non sappiamo dove andare,” ci dice Imad, sudato e sfinito. “Non dormirò per strada. Che l’esercito mi dia una casa al posto di quella che mi hanno distrutto. Fino a quel momento resterò qui. In estate è davvero dura a causa del caldo, e ora arriverà l’inverno, e sarà comunque molto difficile.”
Questa settimana, lui e sua moglie si sono stretti dentro a una piccola tenda che hanno ricevuto in dono dalla Croce Rossa, tenda che basta appena per contenerli; vicino a questa povera abitazione vi sono le rovine di una casupola, molto più spaziosa che era stata casa loro. Le mattonelle di ceramica sparse sul terreno appartenevano al bagno.
Intanto anche i cani randagi cercano di rubare un po’ d’ombra. I loro corpi sono pieni di piaghe e di ferite, e aspettano qualche avanzo di cibo.
L’attivista per i diritti umani Daphne Banai ha concluso il suo post con le seguenti parole: “il capo famiglia, nella sua miseria, cerca di convincerci di essere un buon cittadino, che lui e suo figlio sono puliti per il servizio di sicurezza dello Shin Bet, che lui ha sempre osservato la legge. La legge di coloro che nel 1948 cacciarono la sua famiglia dal Neghev e che lo cacciano di nuovo da ogni altro luogo possibile sulla terra- e anche ora, quando neppure una piccola fetta di inferno resta loro, un arido deserto dove neppure un filo d’erba cresce, gli fanno crollare addosso la casa.”