All’inizio di questo mese, Macron ha svelato il suo a lungo atteso piano: riformare la pratica dell’Islam in Francia.
Le proposte contenutevi limitano i fondi che le comunità musulmane ricevono dall’estero, con l’intento di diminuire l’influenza straniera, e oltre a ciò, prevedono la creazione di programmi per la formazione di imam certificati e formati in Francia. L’uccisione di Paty ha reso questa materia molto più urgente. Il ministro degli interni francese, ha aggiunto che saranno presi di mira per un potenziale scioglimento più di 50 associazioni islamiche francesi nel caso che si scopra che promuovano l’odio, includendo tra queste anche un gruppo di grande influenza orientato alla lotta all’islamofobia. Macron vuole costruire “in Francia un Islam che possa essere un Islam illuminista,” e vuole fermare “ripetute deviazioni dai valori della repubblica che spesso sfociano nella creazione di una contro-società.”
L’obbiettivo, che riscuote il favore popolare, sembra abbia un senso: proteggere la Francia da ulteriori attacchi. “Quello che dobbiamo combattere è il separatismo islamista,” ha detto Macron. Ma tutto ciò sembra non risolvere un problema diverso dalla violenza terroristica.
Invece di rivolgersi all’alienazione dei musulmani francesi, specialmente a quelli che vivono nei ghetti extra-urbani o banlieues- che gli esperti all’unanimità concordano nell’indicare come la causa di base della radicalizzazione e della tendenza alla violenza di alcuni- il governo punta a modificare la pratica di una fede che ha 1400 anni di storia, con 2 miliardi di pacifici seguaci in tutto il mondo, dei quali decine di milioni vivono in Occidente.
È una strana risposta al problema (quantunque ricordi il modo in cui Napoleone regolava la pratica con l’Ebraismo). Ma è forse il solo che la Francia può contemplare non volendosi impegnare a misurare la sistematica discriminazione che tanto alimenta quel “separatismo” che cerca di combattere.
La repubblica francese è dichiaratamente laica, o secolare. Inscritta in una legge del 1905, questa nozione obbliga lo stato a rimanere neutro- a non aiutare ma neppure a non stigmatizzare una qualsiasi religione. Negli Stati Uniti, una società pluralisticamente religiosa, la separazione di chiesa e stato è percepita come la libertà di ciascuno di scegliere il proprio credo religioso. In Francia, storicamente dominata dal cattolicesimo, questa separazione è ampiamente intesa come libertà dall’ oppressiva autorità religiosa. Ma questa chiara e apparentemente incontestabile visione del secolarismo è il prodotto di un’epoca molto diversa, quando il paese era ben più omogeneo sia eticamente che culturalmente di quanto non sia oggi. All’inizio del secolo scorso, la Francia era prevalentemente cattolica, con una piccola minoranza protestante ed un’ancor più piccola popolazione di ebrei.
Il crollo dell’impero francese dopo la seconda guerra mondiale ha fatto sì che la Francia metropolitana diventasse il paese di residenza di molti ex sudditi coloniali provenienti da nord Africa, Africa occidentale, Caraibi, estremo oriente, e per i loro discendenti. L’Islam era ufficialmente arrivato.
Con questi cambiamenti si è fatta strada una nuova interpretazione della laicità, un’interpretazione che spesso mette il paese in contrasto con le manifestazioni pubbliche dell’Islam e che non ha basi nella legge. Dopo l’umiliante sconfitta della Francia in Algeria nel 1962- un trauma che resta in gran misura non elaborato- i cittadini francesi hanno iniziato a percepire le manifestazioni pubbliche dell’Islam come aggressioni contro la natura secolare del paese, benché la Francia chiuda ancora le attività in occasione di ogni festività cattolica importante.
Il velo, e dove possa essere indossato, è diventato una delle più controverse questioni della vita pubblica. I francesi spesso pensano che criticarne l’uso sia un modo per liberare i propri concittadini dall’oppressione religiosa. Una legge del 2004 proibisce il velo nelle scuole superiori, a una legge del 2010 bandisce il niqab, il velo che copre il volto, prendendo a pretesto motivi di sicurezza nazionale.
Quando le donne musulmane indossano in pubblico il velo, vengono spesso prese di mira, anche se sono nella legalità, e anche se cercano di far parte della società francese.
L’anno scorso, per esempio, l’allora ministro della sanità Agnès Buzyn ha contestato l’hijab per la corsa commercializzato dal marchio per abbigliamento sportivo Decathlon, per la minaccia “comunitaria” che evidentemente costituiva per l’universalismo laicista francese.
“Avrei preferito che un marchio francese non promuovesse il velo,” aveva detto. Analogamente, il ministro dell’educazione francese, Jean-Michel Blanquer, benché avesse ammesso che da un punto di vista strettamente legale è lecito per le madri indossare il velo, avrebbe voluto evitare che queste evitassero di accompagnare le gite scolastiche “per quanto possibile.” Questi erano esempi di donne musulmane che più che ritirarsi dalla vita pubblica, cercavano di parteciparvi; ciononostante, venivano censurate.
Il risultato di questa ostilità, e del pregiudizio in alcuni francesi bianchi, particolarmente fra quelli di destra, è che numerosi musulmani francesi vivono in una specie di “contro-società” , separata dalla maggioranza, che Macron teme, – una situazione che non tutti hanno scelto.
I commentatori conservatori non hanno torto quando definiscono alcune banlieues che circondano Parigi, Lione e Marsiglia, “territori persi per la Repubblica,” così come ha detto lo storico Georges Bensoussan. Queste comunità abbondano spesso di interpretazioni radicali dell’Islam, di antisemitismo e di gang delinquenziali; questi elementi insieme possono incubare la violenza terroristica.
Ma la domanda è perché questi territori sono stati perduti. Il motivo è strutturale. I discendenti degli immigrati che vivono in affollati contesti abitativi spesso lottano per conseguire quella mobilità sociale promessa da una repubblica che ufficialmente non discrimina per il colore della pelle.
Le domande per un posto di lavoro e per alcune possibilità di alloggio possono ancora richiedere la fotografia dei richiedenti, e le persone di colore sono spesso trascurate per un inconscio (o anche non intenzionale) pregiudizio. Quando le minoranze, e in particolare i musulmani, esprimono opinioni critiche dei dogmi dell’establishment, la stampa francese le accusa spesso di complicità con il terrorismo.
In un dibattito televisivo mercoledì, per esempio, l’autore Pascal Bruckner ha detto che la nota giornalista Rokhaya Diallo- che lui ha identificato come una “donna nera e musulmana” ha favorito l’attacco del 2015 a Charlie Hebdo perché aveva firmato una lettera aperta contro la rivista.
Tuttavia, nonostante l’attenzione pubblica che i musulmani devono affrontare, può anche essere molto difficile provare che la discriminazione esiste. Dal 1978, la legge francese ha decisamente proibito le indagini (sia condotte da privati che da ricercatori sociali accademici) statistiche su razza, religione o etnia, innanzitutto in conseguenza di quanto avvenuto nella seconda guerra mondiale, quando la classificazione nel paese dei cittadini ebrei facilitò il radunarli e la loro deportazione. Ma il mettere al bando le razze, non ha significato mettere al bando il razzismo, e senza basi concrete, può risultare difficile provare che esistono disparità e in quale misura- e ancora più difficile abolirle.
Tutto ciò contribuisce al fenomeno del “separatismo” nella comunità musulmana in Francia, dice lo studioso franco-tunisino Hakim El Karoui, l’autore di “L’Islam une religion française,” un libro di grande diffusione del 2018 che ha influenzato il progetto di riforma dell’Islam di Macron. Specialmente fra immigrati di terza generazione, “c’è un’importante minoranza che ha questo problema di identità, che non si sente francese- sia perché è stata respinta, sia perché non ne sente il desiderio,” ha detto. “L’Islam riempie questo vuoto.” La versione radicale e violenta praticata dagli aggressori negli otto anni passati, che rappresentano solo una frangia di quella che si pensa essere poco meno del 10 percento della popolazione francese. Ma che è sufficiente per minacciare la sicurezza pubblica.
Il problema allora non è il comprensibile desiderio di Macron di affrontare una minaccia reale. E la sua proposta di legge potrebbe bloccare i ceppi più velenosi della predicazione straniera verso i fedeli francesi, e potrebbe limitare la diffusione dell’odio sui social media, due fattori che si pensa abbiano spinto l’uccisore di Paty. Ma questi sono solo aspetti contigui al problema dell’isolamento e dell’anomia che il paese ha contribuito a promuovere- in alcuni casi deliberatamente, inavvertitamente in altri. La verità è che la contro-società ha a che fare nella stessa misura con l’Islam come con la Francia.
La rabbia violenta che ha suscitato l’uccisione di Paty lascia poco spazio alla riflessione. La maggior parte dei politici francesi ha abbracciato in modo radicale l’interpretazione del secolarismo francese.
Il ministro degli interni Gérald Darmanin parlando in una rete televisiva nazionale ha identificato il cibo etnico come una “cucina comunitaria” che promuove quei sentimenti separatisti che spingono all’attacco. Giorni dopo l’uccisione di Paty, due aggressori di sesso femminile hanno pugnalato due donne musulmane con il velo e le hanno chiamate “sporche arabe” mentre passeggiavano vicino alla torre Eiffel.
“C’è un clima isterico,” dice Rachid Benzine, un ricercatore politico francese. Una persona che non condivideva l’esclusiva visione del secolarismo era Samuel Paty, che era sensibile alle potenziali inquietudini dei suoi allievi musulmani e che aveva dato a tutti quelli che nella sua classe potevano sentirsi offesi dalle vignette di Muhammad la possibilità di guardare altrove.
Egli era chiaramente affascinato dalla cultura islamica, e si era iscritto a corsi di istruzione presso l’Arab World Institute di Parigi e aveva organizzato concerti di musica araba per i suoi studenti. Ma questi aspetti di Paty come “volto della repubblica” sembrano già dimenticati. È stata la vittima di un’indicibile barbarie, ma potrebbe essere il martire della causa di qualcun altro.
Tratto da un articolo di James McAuley pubblicato sul quotidiano USA The Washington Post