Urla e versi, incitamenti e rimproveri si riversano sui calciatori e cadono sul pigro udito dei telespettatori. Le partite di calcio vanno in scena su campi abbandonati, simili a un girone del purgatorio dove sostano anime lamentose e gridanti, vanitosamente illuminate dai riflettori e spiate dall’occhio della telecamera. Gli stadi sono ormai un costoso set cinematografico che riproduce spettacoli in diretta.
Strana cosa gli eventi sportivi destinati al solo sguardo televisivo. L’assenza del pubblico sugli spalti conferisce alle sfide un tono amichevole, come se si assistesse ad una caricatura di duelli, svolti senza lo sguardo dei testimoni coinvolti. La contesa pare assumere la forma di uno scherzo o di un passatempo. Certo, si dirà: sono dei professionisti! Ma pensate a quando siete stati impegnati in una partita o anche in un allenamento amatoriale, in solitudine o davanti a pochi sguardi esterni: c’era differenza?
Dall’altra parte dell’occhio della telecamera, ci siamo noi telespettatori, impegnati con tutti i sensi a coinvolgerci nell’evento trasmesso. Ad eccezione del tatto dei feticisti e dei bambini, capaci di coinvolgersi anche toccando gli schermi dove giacciono le immagini, e dei nevrotici goduriosi, che impegnano il gusto e l’olfatto mangiando e bevendo durante l’intera partita, sono due i sensi coinvolti: la vista e l’udito.
Togliamo l’audio e a prima vista non cambia nulla. Passa poco tempo e subito ci si rende conto che la partita è più noiosa e lenta del solito. Infortuni, tempi morti e il tipico ristagno a centrocampo: l’attenzione si disperde in pochi minuti. È evidente: la sola vista non basta a coinvolgerci. Ne era già consapevole il cinema muto, che teneva viva l’attenzione grazie alla presenza della musica, e ad un ritmo visivo molto più incalzante. Le telecamere sportive ci provano anche, tra primi piani, sguardi degli allenatori, replay quasi sempre inutili e riprese sul pubblico.
Ecco questa è oggi l’unica differenza sostanziale in cui si imbatte la vista: gli spalti vuoti. L’aveva infatti genialmente intuito la rai, riempendo i sediolini vuoti con segni psichedelici, che dovevano ricordare la presenza degli spettatori. Ovviamente un tale stratagemma non aveva favorito la partecipazione, lasciando la sensazione di assistere a un cartone animato e un leggero mal di testa sottostante.
Riattiviamo l’audio e rispuntano le grida isteriche degli allenatori, le urla straziate dei calciatori ad ogni minimo contatto e un vociare costante e diffuso, come se avessero puntato la telecamera dall’alto di una finestra condominiale su un qualunque cortile di città, dove si agitano ragazzini dietro un pallone. Anzi no… visto che oggi non possono giocare, la telecamera riprenderebbe passeggiatori solitari e senza volto, in compagnia di una sigaretta o di un cane. Mentre la maggior parte dei ragazzi si diletta nell’unico e vero gioco coinvolgente, alimentato dalla play-station, dove tutti i sensi (eh sì anche il tatto, senza dover esser feticisti…) si tendono e si inchinano di fronte al vero spettacolo del divertissement contemporaneo.
Torniamo ai rumori di campo. Inizialmente si era affacciata una sorta di curiosità voyeuristica nell’ascoltare le cosiddette voci di campo, che col passar del tempo si sono manifestate per quel che sono: fastidiosi rumori, nemici dell’attenzione e della partecipazione. In un tale scenario uditivo si è fatto più difficile anche il compito del telecronista, appeso ad un fragile equilibrio, tra un’enfasi eccessiva e un tono troppo dimesso. Se sceglie l’enfasi, ravviva l’attenzione ma rischia di cadere nel ruolo del mitomane che grida nel silenzio di un campo di provincia, se opta per il basso profilo, rischia di restare schiacciato e sopraffatto dalle urla circostanti.
Ma perché la presenza di quella folla sugli spalti ci manca così tanto? Noi telespettatori che da tempo abbiamo preferito lo spettacolo pagato tra le mura di casa, lasciando ad altri la fatica sensoriale della presenza, ora ci divertiamo meno e non riusciamo a partecipare come prima. Cos’è cambiato in fondo? Lo sguardo per procura. È finalmente chiaro come l’occhio della telecamera non basti per farci sentire in presenza. È la presenza fisica degli spettatori, che si manifesta uditivamente, a permetterci di identificare il nostro sguardo con quello del pubblico presente, dandoci l’illusione di esserci e partecipare.
Grazie al rumore della presenza, il nostro sguardo diventa un prolungamento di quello dei tifosi. I rumori congiungono spettatori e telespettatori, gli insulti dei nemici e l’entusiasmo degli amici, mentre il telecronista trasforma la gara in una narrazione. Il rumore di fondo è l’unico modo efficace per sostituire la rappresentazione dell’evento con l’evento in sé; mentre la vista, se lasciata sola, è condannata alla pura rappresentazione.
Ma il calcio è in buona compagnia. Se vi capitasse di ascoltare la radiocronaca di una partita di basket, sembrerebbe di assistere alla cronaca di una disperata lotta tra topi: i passi dei cestisti riproducono alla perfezione il suono di squittii che si inseguono. Un po’ meglio va al tennis, dove vengono a mancare soltanto gli applausi scostanti del pubblico al termine di ogni scambio, come se alla registrazione di un concerto si eliminassero gli applausi alla fine di ogni canzone. Insomma quasi un vantaggio, mentre lo sport più immune pare esser l’automobilismo e in generale il mondo dei motori, in cui il pubblico sarebbe facilmente sostituibile con pupazzi di cartone sugli spalti. Si tratta infatti di sport già autistici, che implodono normalmente nel loro stesso rumore.
Alla fine resta un’amara constatazione: lo spettacolo sportivo senza pubblico diventa uno sterile piacere privato.