Negli ultimi anni le serie televisive turche sono diventate molto popolari. Una delle prime serie a conoscere un grande successo, nel 2011, fu quella dedicata a Solimano il Magnifico (Muhteşem Yüzyılı) che spopolò nei paesi arabi e nei Balcani.
Un successo simile fu ottenuto l’anno prima da Fatmagül’ün Suçu Ne? che raccontava di una giovane ragazza che, tra pregiudizi e tabù, cercava di ricostruirsi una vita dopo uno stupro di gruppo.
Ultimamente su Canale 5, ha riscosso un grande successo tra il pubblico italiano la serie Daydreamer (il titolo originale è Erkenci Kuş), con un contenuto molto più disimpegnato.
Questo mese Netflix ha pubblicato la serie di Berkun Oya, Ethos (il titolo originale turco è Bir Başkadır), in otto puntate, disponibile anche sul catalogo di Netflix Italia.
Dello stesso regista è possibile vedere anche, Innocent (Masum), sempre ambientato nei villaggi nella provincia di Istanbul con al centro difficili relazioni familiari e un omicidio.
Qui in Turchia, la novità di Netflix, Ethos, è tra i serial più visti ma ha anche scatenato enormi polemiche sia tra i conservatori che tra gli intellettuali laici.
La figura principale della serie è Meryem, una giovane ragazza velata interpretata dall’ammaliante Öykü Karayel. Meryem è una donna religiosa che vive nella periferia rurale di Istanbul e lavora come domestica nella società bene, laica e un po’ dissoluta. Perché ha sofferto di improvvisi svenimenti, inizia una terapia con una psichiatra, Peri, interpretata da Defne Kayalar, di famiglia benestante ma intollerante nei confronti dei conservatori turchi.
Tutti i personaggi sono coinvolti in relazioni familiari ed amorose estenuanti e sterili. Il vero tema della serie, infatti, è l’incapacità di comunicare liberamente i propri sentimenti e la violenza latitante nel linguaggio e nelle relazioni. Questa incapacità è dovuta a stereotipi, tabù culturali e religiosi.
Una realtà della società turca contemporanea che lascia sgomenti tutti coloro che vivono in questo bellissimo paese.
La serie è stata criticata da molti perché, per la prima volta, il cinema turco mette al centro della propria storia un personaggio velato.
Nonostante la società turca sia composta da donne velate e donne senza velo che lavorano e sono parte del quotidiano urbano, c’è ancora chi non accetta questa realtà e la sua rappresentazione sullo schermo.
Questi non comprendono che incontri e scambi tra persone diverse, che non vedono la religione, la cultura e la società in bianco e nero, appartengono a gran parte delle famiglie e della vita di tutti i giorni. Non mancano neanche le conversazioni in curdo tra i membri della famiglia della psichiatra che ha in terapia Meryem.
Il curdo non è rappresentato in termini politici bensì si tratta di una famiglia normale che, come molte altre, ha sofferto di migrazione, violenza, superstizione e dell’avvilente quadriplegia del fratello. Anche questa è una novità per il cinema turco. I conservatori hanno, invece, criticato la serie perché le donne velate sono rappresentate come ignoranti e sottomesse. L’imam del villaggio anche è uno stereotipo che ripete sempre la stessa solfa.
Tutte queste critiche sono parallele alle stesse contraddizioni della società turca, che è e uno dei soggetti di Ethos. Le critiche sulla stampa e sui social guardano alla serie come se si trattasse di un film neorealista. Si tratta, però, di una favola con il tipico lieto fine. Una favola perché, seppur ambientato nel 2019, i costumi, le musiche, e gran parte dei luoghi appartengono agli anni ’80.
Ne sono una prova le musiche e le clip, che accompagnano i titoli di coda, del ‘neomelodico’—in turco si direbbe Arabesk, la musica “arabeggiante” —Ferdi Özbeğen. I luoghi sono anche irreali. Si tratta sicuramente di Istanbul, ma la telecamera riprende solo i mostri dell’urbanizzazione della megalopoli.
L’autobus della linea 24, che ritorna più volte nella serie e che la pendolare Meryem è costretta ad usare per andare da Beykoz a Mecidiyeköy, non esiste. Anche le vite dei personaggi si intrecciano grazie a una serie di eventi che sono talmente fortuiti da essere irreali.
Il ricorso alla favola è qualcosa usato comunemente in letteratura. Mi ricorda Calvino, ma anche Latife Tekin e il suo libro Berci Kristin Çöp Masalları, che lessi all’università al corso di Lingua e letteratura turca (pubblicato in Italia con il titolo Fiabe dalle colline dei rifiuti). Quest’ultimo libro mette al centro della sua narrazione l’urbanizzazione, lo sfruttamento della manodopera e l’abusivismo degli anni ’60 e ’70.
Per Tekin, però, i personaggi della favola sono villani, ignoranti.Un paradosso per un’autrice di sinistra. La serie Ethos, invece, non vuole imporre valutazioni bensì lascia allo spettatore il giudizio sui personaggi che a me appaiono neutri. Meryem, per esempio, viene da un ambiente povero e non è istruita. È legata all’imam del suo villaggio, ma riesce a risolvere i sui problemi quando riesce a comunicare i propri sentimenti e, così, guida la psichiatra ad affrontare anche le sue paure.
Per capire meglio la Turchia e la sua società, Ethos è certamente una buona visione.