L’oro della Turchia (Rosenberg & Sellier, 2020) è l’ennesimo libro contro Recep Tayyip Erdoğan: un filone della pubblicistica sempre fiorente. Neanche il taglio, esplicitato nel sottotitolo, è particolarmente originale: l’industria delle costrruzioni come “il business che ha stravolto il volto del paese e il suo tessuto sociale”. Ma almeno non è Il Sultano palazzinaro: perché l’autrice, la giornalista Giovanna Loccatelli, ha comunque il merito di evitare i pregiudizi islamofobi di molti altri colleghi.
Il suo problema, invece, è quello di selezionare i fatti e di interpretarli alla luce delle preferenze politiche e dell’ideologia. E così, ad esempio, l’urbanizzazione e il “neoliberismo” sono immancabilmente “selvaggi”, o addirittura “feroci”; è tutta una “speculazione”, in sostanza. Mentre al cattivo Erdoğan viene contrapposto il buono – quasi divinizzato – Ekrem İmamoğlu, dal 2019 sindaco di Istanbul per le opposizioni: “è diventato la nuova speranza, il paladino della giustizia, il difensore dei più poveri. La gente si è innamorata di lui.”
Questa frase – imbarazzante, per chi l’ha scritta – ricorda gli elogi sperticati elargiti a Benito Mussolini dai giornalisti stranieri che accorrevano in Italia durante la prima fase del Fascismo, incuriositi dalla novità. Ma poi İmamoğlu viene infilato praticamente in ogni capitolo, per ricordare che se qualcosa va male c’è comunque lui – o Lui? – a cui affidarsi: quasi come una pubblicità elettorale nella settimana prima del voto.
Ma è la tesi stessa della Loccatelli a essere problematica. L’idea del settore delle costruzioni come motore della crescita e dello sviluppo della Turchia, persino come chiave interpretativa per spiegare i successi elettorali dell’Akp, è assolutamente sensata. Però, poi vanno forniti i dati: peso sul Pil, addetti, costi dei progetti, reddito generato; invece questi dati mancano del tutto: e l’analisi si fonda quindi sul sentito dire, sul letto altrove.
Soprattutto, non è corretto mettere indistintamente sullo stesso piano – almeno nel ragionamento, perché poi ci sono capitoli separati – l’edilizia urbana e i grandi progetti infrastrutturali: autostrade, linee ferroviarie ad alta velocità, linee di tram e metropolitane, ponti, tunnel, porti, aeroporti in quasi tutte le province della Turchia, dighe per l’energia idroelettrica nel sud-est. E no, non si tratta di “megalomania”: ma di un un piano di sviluppo strategico, necessario per colmare il gap infrastrutturale pre-esistente e soprattutto per collegare i centri produttivi dell’Anatolia ai mercati internazionali.
Tra l’altro, la Loccatelli riconosce che il risultato dell’amministrazione dell’Akp è la formazione di una nuova classe media, conservatrice: ed è su questo fenomeno insieme politico, economico e sociale cha avrebbe dovuto impostare il suo lavoro. Molto ben documentato è però il capitolo sui cosiddetti “Turchi bianchi”, le élites tradizionali – kemaliste, occidentalizzate – della Turchia: sembra un saggio accademico, presenta solo analisi ed è privo di slogan.
Comunque, l’ulteriore errore dell’autrice è quello di aver limitato le sue ricostruzioni a Istanbul, mentre al resto del Paese ha dedicato forse una o due frasi, quasi controvoglia. È un errore perché, abbagliata dalla rilevanza simbolica del nuovo aeroporto della capitale ottomana e del terzo ponte sul Bosforo, finisce per stravolgere l’obiettivo del piano infrastrutturale: creare sviluppo e ricchezza, quindi anche consenso elettorale, dappertutto. Simboli del potere, ma funzionali.
Poi, sì: sono state anche costruite molte nuove moschee, compresa quella mastodontica sulla collina di Çamlıca che domina il Bosforo (con 6 minareti, come la moschea blu). Però, perché la Loccatelli dimentica che sono stati costruiti, negli anni del potere dell’Akp, anche centri culturali e musei di rilevanza mondiale? Quello spettacolare di Troia, ad esempio.
Parla invece di stadi, ma avrebbe potuto aggiungere anche gli impianti costruiti e aperti per molti altri sport (piscine, palazzetti): anche in questo caso, non solo a Istanbul ma su tutto il territorio nazionale. Racconta che l’AKM, il grande centro culturale di piazza Taksim dedicato ad Atatürk, è stato demolito: ma presenta l’operazione come uno sfregio politico, invece di dilungarsi a illustrare quello nuovo – più grande, disegnato dal figlio del primo progettista, rispettoso delle forme originarie – che verrà presto inaugurato. Una realtà di comodo.
Riguardo Istanbul, l’autrice è prigioniera di pregiudizi orientalisti: rimpiange l’identità perduta fatta di “carretti trainati da cavalli; case di legno fatiscenti…”. L’ideologia prende poi il sopravvento: con una tirata infinita – interrotta solo dalle invocazioni a İmamoğlu – Giovanna Loccatelli esprime tutto il suo furente disprezzo contro grattacieli e centri commerciali, contro sostanzialmente “i ricchi”, contro tutti quei progetti di rigenerazione urbana che smantellano le baraccopoli e le sostituiscono con abitazioni più decorose e persino signorili.
Le case di edilizia popolare che comunque vengono fornite a chi viene sgombrato (spesso occupanti abusivi) però non vanno bene, perché lontane dal centro e prive di orti. C’è nostalgia per le rivolte di Gezi, insomma: come traspare da un apposito capitolo. In un altro, non può però che apprezzare il settore sanitario all’avanguardia, visto che lo ha sperimentato direttamente: anche se, mettendo da parte il furore ideologico, si è affidata a ospedali privati.
Il punto è: visto che gli ultimi due decenni hanno portato in Turchia sviluppo e ricchezza (nonostante alcune crisi cicliche, come quella in corso), perché i suoi cittadini non dovrebbero aspirare a servizi migliori, ad abitazioni più confortevoli, persino al lusso? Perché condannare la Turchia al pittoresco da cartolina, ai carrettini, alle case fatiscenti, al degrado delle baraccopoli spacciato per “autenticità”? Soprattutto a Istanbul: che è stata per 1600 anni una capitale imperiale, a tratti la città più ricca e sfarzosa del mondo, e che negli ultimi 25 anni ha recuperato parte della sua gloria perduta.