Ha fatto molto scalpore mediatico nelle scorse settimane la notizia dell’abbandono della passerella da parte di Halima Aden, modella americana musulmana di origine somala. Salita alla ribalta più volte in Europa e negli USA, la giovane sorella che aveva già collaborato come creatrice di moda al sito turco Sefamerve nonché Ambasciatrice Unicef, ha deciso di ritirarsi dalla carriera di fotomodella per non mettere a rischio la sua fede dopo aver fatto diversi compromessi con l’establishment dell’alta moda.
Si tratta di compromessi all’apparenza minimi, come il sostituire allo hijab un turbante, ma che presuppongono comunque una forzatura per la donna che li accoglie perché attuati a malincuore e solo per poter andare avanti col lavoro; questi compromessi finiscono per rappresentare un vulnus alle proprie convinzioni religiose ed alla propria dignità.
Proprio in questi giorni aveva dichiarato alla stampa: “Non importa quello che io o chiunque altro vi può aver detto in proposito ma questa industria non è adatta a noi; non lo è in alcun modo”. Essa propone infatti una falsa immagine della donna musulmana in cui si dovrebbe rispecchiare, una copia della donna occidentale con alcune concessioni all’Islam, quando invece dovremmo essere noi ad attirare le donne verso uno stile di vita più rispettoso della nostra dignità.
E non è affatto un’utopia: basta mantenere la “schiena dritta” ed essere creativi con intelligenza. Oggi il burkini non è indossato solo dalle donne musulmane ma anche da cristiane o laiche stanche di scoprirsi ad ogni costo copiando uno stile di vita desacralizzante a noi estraneo.
Negli ultimi anni la modest fashion ha raggiunto un fatturato di quasi mezzo miliardo di euro ed ha avuto una forte necessità di figure pubbliche musulmane che la possano rappresentare.
Tale crescita nasce dalla risposta offerta alle esigenze di milioni di donne musulmane inserite in ogni settore della vita sociale; necessità differenti da quelle delle donne del passato.
La spinta è così giunta tanto da donne musulmane manager di grosse e medie aziende che non intendono farsi vedere in giro con vestiti dimessi e nemmeno sono disposte a sacrificare la loro fede sugli altari del progresso, ma anche da semplici musulmane europee che cercano uno stile aderente alla loro identità e cultura. Queste giuste esigenze sono state non di rado stravolte dai creatori di moda esterni alla comunità, che hanno utilizzato la modest fashion come cavallo di Troia per mantenere il dominio della prospettiva neocoloniale e maschilista sulle donne stesse, costruendo come sempre modelli di abiti difficili da portare o non abbastanza coprenti che stravolgono completamente il senso della modest fashion, costringono le modelle a sfilare per solo marketing.
Il risultato è così il trionfo della fatuità e della pura apparenza, aspetti che contraddicono quelli della bellezza interiore e spirituale della donna musulmana, che si rivela nella nobiltà dello sguardo e dei lineamenti, che non ha bisogno di maschere e trucchi esagerati per risaltare.
Halima ha giustamente rifiutato la logica secondo cui dobbiamo continuamente fare passi indietro nella nostra immagine pubblica per conquistare il diritto ad esistere come donne credenti, in un mondo che tendenzialmente rifiuta Dio.
Dobbiamo fare esattamente l’opposto: questo è il senso dell’autocritica manifestata da Halima, che ha fissato ora rigide norme per lavorare in modo che saranno gli addetti alla moda a cercarla se vorranno e non viceversa. Dobbiamo contrastare, senza fanatismi ma fermamente, la logica secondo cui la donna vale solo se corrisponde a certi stereotipi di bellezza e fascino esteriore e se questa bellezza viene apertamente mostrata.
Nella misura in cui una donna sale su una passerella automaticamente diventa oggetto o prodotto di una campagna pubblicitaria che utilizza il suo corpo ed il suo viso – anche se mezzo coperto – esclusivamente per guadagnare e far guadagnare cifre iperboliche. Va applaudita la giovane modella per aver preso una decisione giusta e coraggiosa; ed è tempo che la comunità si organizzi per avere proprie industrie di moda che abbiano uno stile proprio, non dozzinale, raffinato e non appariscente, le cui creazioni siano alla portata di tutte le tasche e che siano anche sostenibili dal punto di vista ambientale.
Deve esistere una moda musulmana che sia realizzata dalle musulmane stesse per la comunità e non solamente per accumulare denaro ed alimentare il modello consumistico estraneo, anzi contrario, alla nostra visione del mondo.