Negli ultimi tempi può accadere di tornare a casa e vedere i membri della propria famiglia riuniti su un divano, intorno al tavolo da pranzo oppure per terra. Si muovono in maniera strana, fanno smorfie, gesti plateali e guardano tutti fissi in un punto. Pare di assistere ad una insolita recita scolastica oppure di essere in un reparto di una comunità psichiatrica.
Dopo un po’ scopri però che le loro mosse dipendono da un invisibile totem digitale che li filma per comunicare. Insomma stanno facendo una videochiamata. Quella appena descritta è la tipica videochiamata familiare rivolta in particolare a un bambino che sta dall’altra parte della connessione. Lui gioca, ride, ogni tanto dice qualcosa e la famiglia connessa invece continua a recitare per lunghi, infiniti minuti. Da una parte c’è l’animismo infantile che si muove nel proprio agio, dall’altra il disagio di una recita adulta.
Poi ci sono le videochiamate tra amici, dove sullo schermo del proprio cellulare pare di assistere a un proclama di un ostaggio delle Brigate Rosse; l’amico parla incastonato in una cornice casalinga e distante. I discorsi lunghissimi sono controbilanciati da una ripresa sempre fissa: tu ipnotizzato dalla visione a malapena lo ascolti. Da non dimenticare anche le videochiamate tra innamorati dove sorrisi, gesti ed espressioni sembrano richiamare i tempi di un film muto, con la sola differenza che è a colori, non c’è azione e neanche musica.
Si tratta solo di alcuni possibili esempi. Di certo in questi strani tempi di chiusura la videochiamata è diventata ancor di più uno dei modi principali per aprirsi al mondo, mantenere un contatto cogli affetti (non conviventi, per usare il linguaggio da decreto) e dare una parvenza di movimento ad una vita diventata insopportabilmente statica.
Ma c’era proprio bisogno di aggiungere l’immagine alla voce per comunicare?
L’intensità di una conversazione telefonica (voluta e non subita ovviamente…) è figlia dell’intimità della voce. Le voci che parlano al telefono riescono a creare uno spazio unico e originale, in cui tutto ciò che non fa parte del loro incontro viene estromesso; semplicemente non esiste. La voce evoca e accorcia la lontananza. La visione mostra e dimostra la distanza.
Attraverso il solo udito le voci riescono a coinvolgere gli altri sensi, amplificando la sensazione di presenza. Se l’uomo funzionasse in base al solo principio di addizione, allora si potrebbe pensare: aggiungiamo la vista e la sensazione di presenza non può che aumentare. Non è proprio così. Per prima cosa la videochiamata imita una conversazione dal vivo, non crea uno spazio nuovo. Davanti al telefono si prova a scimmiottare la comunicazione che si potrebbe avere ai tavolini di un bar, su un divano di casa o su un marciapiede di una qualunque strada.
Mentre la conversazione telefonica è riuscita col tempo a creare una sintassi e una grammatica proprie, dove le pause fanno da punteggiatura e il tono della voce scandisce l’enfasi e l’atmosfera; invece la videochiamata resta per sua natura legata all’analogia con l’incontro. La vista del corpo o solo del volto altrui e dei dettagli che lo circondano (una parete, un tavolo, qualunque altra cosa) ti riportano sempre e per forza in un luogo che non è lo stesso tuo. Questa è la distanza che invece la semplicità dell’udito telefonico non conosce. Basti pensare a un litigio telecomunicativo: in una conversazione si urla, si sbraita, le vene sul collo si tendono e si inizia a camminare in maniera furiosa o a scatti. Tutta l’ira che si vuole comunicare è nella voce, mentre il resto della rabbia si sfoga attraverso tutto il corpo.
Immaginiamo invece un litigio durante una videochiamata; per prima cosa non ci si può muovere più di tanto altrimenti si imiterebbe un film di Von Trier, e poi la rabbia esplosa in maniera autentica, dovrebbe concludersi con l’atto definitivo di annullare l’altro, mangiando il telefono, oppure scaraventandolo lontano. Ma non si fa nessuna di queste cose, perché la videochiamata è un simulacro che non agisce.
La conversazione telefonica ha un altro vantaggio oggettivo: consente di fare altre cose, migliaia di piccole azioni quotidiane, attraverso cui la voce dell’altro viene inserita con delicatezza nella propria quotidianità. Cosa impossibile con una telecamera sempre puntata in faccia; allora non si fa nulla, nessuna traccia di azione. Si vede l’altro senza ospitarlo. Infatti esiste solo uno specchio invisibile su cui si è consapevoli di esser proiettati. È proprio quello specchio che porta a scimmiottare movimenti e gesti, che altrimenti scivolerebbero in maniera naturale. Si potrebbe dire: è la stessa cosa di una conversazione dal vivo! Potrebbe ma non lo è.
Dal vivo non hai la sensazione di esser ripreso e quindi visto, sai (ovviamente) che l’altro ti vede ma non te ne accorgi e al massimo lo scimmiottamento diventa teatro. In ogni caso, meglio vedere una scimmia al teatro che riprenderla in uno zoo… La telecamera ti spinge a vedere, gli occhi ti portano ad osservare, la voce ti lascia immaginare.
Viene da pensare ad una diffusa credenza tribale, secondo cui la fotografia ruba l’anima, perché cattura e riproduce l’immagine senza il movimento che le è connaturato. Chissà come reagirebbe un membro di queste tribù di fronte ad una videochiamata che della fotografia non possiede neanche l’originale capacità di sottrarre all’immagine il movimento del tempo. Probabilmente crederebbe di assistere a un segno della forza oscura di una potente divinità oppure al gioco infantile di un’umanità che a furia di andare avanti, finalmente si sta avvicinando al suo passato di statica scimmia.