Ritratti pestiferi: Stato di emergenza come normalità

Ormai è chiaro a tutti che lo stato d’emergenza non è più un semplice attributo politico ma un sostantivo della nostra vita quotidiana. Pare esser emerso dal nulla come decisa risposta a un’improvvisa crisi virale. Ma non è così. Si tratta infatti di una costruzione iniziata da lontano, che in un crescendo d’intensità ha reso l’emergenza una parola amica nella costruzione del nemico. All’inizio l’emergenza si presentò sposata al terrorismo.

Prima quello politico, articolato intorno a brigate, fazioni di destra e sinistra, frammenti di violenza e d’anarchia capaci di fomentare l’unità come risposta. Attentavano all’ordine per creare disordine.

Finivano nel caos rafforzando l’ordine costituito, il loro nemico. Poi il terrore si spogliò della politica e riuscì nel salto di qualità, presentandosi velato e più scuro nel suo volto di religione. È in quel preciso momento che il terrorismo è riuscito a trapiantare nel costume quotidiano la parola e il sentimento dell’emergenza.

Perturbamento costante, declinato in paura e nell’attesa della paura, il terrore si è liberato delle frontiere e si è fatto multinazionale come un’azienda qualunque.

L’emergenza-terrorismo allora si è tradotta in rigidi controlli alle frontiere, in viaggi arei diventati una sovrapposizione di burocratiche file dall’inizio alla fine del volo e in una diffidenza generalizzata verso segni e tratti estetici diversi dai nostri. Poi l’emergenza si è svincolata dal terrore per accoppiarsi all’immigrazione.

Sempre uomini, ma non più legati ad un’unica religione o a una comune cultura, uomini semplicemente legati dalla disperazione e dal mare come sola speranza. Così è nata l’emergenza-immigrati, alimentata dalla quotidiana cronaca dei loro sbarchi, che rimbalza su stampa, tv e social, fomenta dibattiti e indirizza la politica.

In poco tempo l’immigrato diventa l’emergenza decisiva contro cui lottare per salvare il nostro lavoro, le nostre donne e la nostra sicurezza; in poche parole la nostra identità. A poco a poco l’emergenza-immigrazione scivola di significanza e si trasforma in emergenza-sicurezza.

Le strade e i vicoli delle città, le porte private delle proprie case sono costantemente minacciate dalla minacciosa ombra dello straniero. Si invocano e puntualmente si scrivono leggi e decreti aventi come oggetto la sicurezza. L’opinione pubblica pare tranquillizzarsi, ma l’emergenza decide di compiere un nuovo passo, dall’uomo al cielo. E non al cielo di nuove o vecchie divinità, cosa ormai troppo anacronistica, ma al semplice cielo meteorologico.

Allerta meteo, bombe d’acqua, caldo record. Un linguaggio bellico che è diventato un ritornello quotidiano, così all’improvviso l’orizzonte al di sopra della nostra testa è assurto a terribile provocatore di orrore. Da cui difendersi e contro cui lottare. Peccato che qui leggi e decreti siano impotenti, almeno nell’immediato. In realtà la lotta, quella vera, doveva iniziare qualche decennio prima, quando una marea di cemento è stata trapiantata a caso nel suolo. Ma mai che si sia gridato: emergenza cemento!

Come d’incanto e con una certa ironia l’emergenza ha scelto un suo ultimo, momentaneo viaggio. Un transito decisivo dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo; è scesa dal cielo del meteo per incarnarsi nella biologia di un virus, non importa se d’origine laboratoriale o animale, perché in ogni caso ci ha rammentato la nostra darwiniana discendenza. Questa volta l’emergenza-pandemia è riuscita in un’impresa nemmeno sfiorata dalle sue antesignane: paralizzare tutti senza distinzione alcuna: occidentali e orientali, cristiani e musulmani, migranti e stanziali. Tutti ci siamo sentiti sotto lo stesso cielo.

E con questo sigillo dentro i nostri corpi, espansa dall’eco mediatica, l’emergenza ormai è salda nelle nostre menti. E purtroppo non ci sarà vaccino capace di neutralizzarla. Perché quando i corpi saranno finalmente immuni dal virus, lei salterà fuori per incarnarsi in un altro elemento, grazie a cui si terrà in vita. In simmetrica continuità col suo percorso forse le cronache grideranno in un prossimo futuro: emergenza-cibo. Non ci sarebbe infatti terreno migliore dell’alimentazione per unire corpo, quotidiano e terra.

Surrogato dello scontro fisico e del conflitto ideologico, l’emergenza è un sentimento tutto interno, che ci sta rendendo docili nel corpo e vigliacchi nella psiche.