Tra le tante espressioni mediatiche che diventano rapidamente senso comune vi è quella del covid che “si è portato via una intera generazione”. E suona strana, perché in passato questa espressione si usava nel linguaggio post-bellico, incluse le guerre civili.
Le generazioni portate via erano generazione di giovani maschi “nel fiore degli anni”. Una vecchia canzone popolare del primo dopoguerra diceva: “… spera che adesso non nascan più donne/così le ragazze si possan sposar …”. Era un’anomalia, una lacerazione. Ma che scompaia, in un lasso di tempo relativamente delimitato, la generazione dei più vecchi, è cosa fisiologica; è il “ricambio generazionale”.
Stupisce ancora di più, questo declinare in termini generazionali la catastrofe del covid, se ci ricordiamo di quanta ostilità esiste da tempo, in Occidente, nei confronti dei vecchi, portatori di quella vecchiaia che è il nostro più grande tabù dopo la morte.
Sono descritti, i vecchi, come quelli che con il loro egoismo, sostenuto dal loro numero, influenzano le politiche pubbliche a proprio favore, che organizzati in potenti lobbies “rubano il futuro” ai giovani, le pensioni ai figli. E che da ultimo hanno imposto ai giovani il lockdown perché non se ne vogliono stare a casa, come afferma la sociologa Chiara Saraceno (Repubblica, 1-11-2020)
Trattasi allora di lacrime da coccodrillo? Non necessariamente. Nell’espressione magari confluisce un po’ di cattiva coscienza di chi ha prodotto questa narrativa. E vi confluisce la falsa coscienza di quanti aderiscono acriticamente alla story del giorno qualunque essa sia: ieri l’invettiva contro l’egoismo delle vecchie generazioni, oggi il lutto per la loro scomparsa. Ma vi confluisce anche un poco di ipocrisia.