C’era un tempo in cui il passaporto era il passepartout per girare il mondo. Rassicurato dall’appartenere ad una patria, certificato da Questura e marca da bollo, si poteva viaggiare dappertutto liberamente, con qualche piccola eccezione costituita da paesi che richiedevano una strana cosa chiamata Visto, che poi si riduceva ad un’ulteriore marca da bollo.
Si pagava e si era pronti per mettersi in viaggio. Poi è arrivata Schengen che ha liberato le frontiere di ogni angolo europeo. Nessun controllo, modulo o timbro: un incontenibile vento di leggerezza nel passare da una lingua all’altra, senza capire nulla ma con un ignaro spirito di fratellanza. Viaggi, studio, lavoro, incontri: l’Europa era diventata uno stradario cittadino da attraversare con aria da da perditempo.
Poi all’improvviso il contrappasso di Schengen è sceso sulla terra europea e non solo. Si è disteso ad erigere strani confini: regionali, provinciali e addirittura comunali. Tanto che alcuni cittadini per la prima volta hanno sentito l’evidenza di appartenere a un comune diverso da quello limitrofo, e qualcuno quasi quasi è stato preso da uno strano e nuovo sentimento patriottico, che dal medioevo latitava, dall’epoca dei Principati, dei Comuni e delle piccole Repubbliche autosufficienti. Ecco che il passaporto diventa un cimelio, in attesa di diventare sanitario. Una nuova strada, quella del passaporto sanitario, su cui inizia già ad arrischiarsi qualche solitario principe regionale, sempre in anticipo sulla stupidità e in ritardo rispetto al senso
Nel frattempo la carta d’identità rappresenta un fastidioso limite, da cui prende vita una lontana nostalgia, i tempi in cui vagheggiavi, inascoltato, dei vantaggi inestimabili dell’essere apolidi. Il vantaggio di dichiarare due residenze, quattro-cinque domicili, un lavoro possibilmente itinerante, almeno un paio di famiglie con altrettanti figli nati da diverse madri. E allora la nostalgia si volge al presente e si fa azione: ci si ferma con occhio illuminato davanti alla stampante per produrre un blocco di autocertificazioni che disegnano la geografia del paese. Scegliendo magari una residenza in Sicilia e l’altra in Alto Adige, nel mezzo una serie di domicili sparsi in Campania, Toscana, Lombardia e come vezzo nelle Marche o in Molise.
Ma non basta, puoi dichiarare un lavoro da libero professionista che purtroppo, sì che sciagura questa vita sbattuta… ti porta da una parte all’altra del paese. Tutto è pronto per stampare e compilare le autocertificazioni per disporle meticolosamente in tasca. Così all’occorrenza, se ci si imbatte in un custode e garante dell’ordine ancora zelante nonostante sia ormai passata la grandeur da controllo in stile quarto Reich che aveva contraddistinto la primavera, si sfogliano le certificazioni et voilà: ecco quella dedicata al territorio che si sta calpestando.
Invece che duro fardello avere una carta d’identità chiara, un semplice lavoro e addirittura una sola famiglia. Come uscire da quella fortezza eretta intorno al proprio Comune? O addirittura scavalcare il muro di Berlino della ragione d’appartenenza per salutare un parente o un’altra persona cara? Un’impresa che scoraggia in partenza e allora meglio leggere gli articoli rivelatori di una paio di giornaliste del Corriere della Sera, che da mesi con un certo sadismo vaticinano sui futuri sicuri limiti.
Oppure, con rispettoso senso del rito e delle istituzioni, aspettare la prossima conferenza stampa del Presidente del Consiglio. Prendere prima un paio di caffè perché il ritmo della loquela presidenziale purtroppo va scemando e subentra davvero il serio rischio di addormentarsi. Prendere carta e penna per segnare con scrupolo quali spostamenti sono concessi.
E fare ben attenzione al fatto che i decreti funzionano a spirale, come se fossero i numeri di Fibonacci: ogni cerchio include un altro. E se uno ti assegna un colore non è detto che l’altro decreto, più rotondo e beffardo, eriga il muro intorno alla Regione, se non addirittura al Comune. Invece l’apolide gira e gira, firma e dichiara, e per lui Conte continua ad avere soltanto la faccia volgare dell’allenatore dell’Inter.
E poi l’apolide sfoglia con dito diligente le pagine digitali e ormai si è fatto convinto di una verità incontestabile: ogni decreto finché non diventa una legge approvata dal Parlamento, subisce e patisce un lieve difetto di incostituzionalità, come dire un handicap geneticamente determinato. Ipotesi confermata da esimi costituzionalisti del paese e quindi non proprio campata in aria.
E quindi se dovesse trovarsi di fronte all’incarnazione del geniale vigile interpretato da Alberto Sordi, attenderebbe il tempo della scrittura, per poi appendere la multa come un trofeo, senza mai pagarla e sperando si faccia presto valoroso ricordo. Da mostrare con soddisfazione sopra il vecchio passaporto ed una vecchia chincaglieria turistica raffigurante il muro di Berlino: che assurda nostalgia di un’unica città separata da due utopie! Mentre oggi? Una nazione, una regione, una città, perfino un condominio sono separati da governi senza alcuna visione, nell’attesa che l’identità esca rinvigorita dalla sua ospedalizzazione.